Politica

La cura come gesto politico

La cura - che non è solo quella sanitaria - è sempre un gesto politico e implica il prendere posizione per determinati fini e sulla base determinati valori per tradurre investimenti economici in un progetto di società. Le politiche di cura allora sono chiamate sì ad essere interpreti delle trasformazioni e portatrici di innovazioni, ma senza consegnare il futuro a un proclamato “cambiamento” che guarda in realtà a logiche di mercato

di Vanna Iori

Reggio Emilia sta per ospitare l’appuntamento con il Festival di Emergency, poco dopo la scomparsa del suo fondatore, Gino Strada. Sono previsti incontri e dibattiti sul tema “La cura: diritto e valore fondamentale del vivere insieme”. Si parte da una domanda molto precisa: quali sono le condizioni politiche, economiche e sociali affinché la cura corrisponda effettivamente ai bisogni collettivi e non alle logiche di mercato? Mi vorrei soffermare su questa domanda, anche alla luce degli sconvolgimenti causati dalla pandemia e dalle risorse per la sanità, soprattutto territoriale, previste dal Piano Nazionale Ripresa e Resilienza.

Il nostro sistema sanitario, come del resto quello di quasi tutti i Paesi europei, si è trovato impreparato di fronte a una crisi dell’esperienza tradizionale che ha reso ineludibile la necessità di sviluppare un nuovo sistema sanitario che non si fondi più sul ruolo centrale e primario dell'ospedale ma che ridia corpo e sostanza ai centri territoriali. In tal senso, il Covid-19 si è rivelato un'opportunità per trasformare il vecchio assetto del SSN, nato nel 1978 in un contesto socio economico profondamente diverso, alla luce delle grandi trasformazioni anche demografiche (e non solo sociali) che attraversano le nostre società. Perché un sistema che nasce universale e gratuito ha, invece, mostrato profonde disuguaglianze che vanno sanate, eliminando differenze organizzative e finanziarie che spaccano il Paese.

Ma soprattutto è emerso con chiarezza che il tema della cura non è solamente legato ai bisogni strettamente sanitari, e non può mai essere scisso dalla politica perché ogni scelta sanitaria è sempre pubblica e perciò politica. Questo legame tra le scelte sanitarie e gli obiettivi politico-economici è imprescindibile perché su di esso si realizza il progetto per il futuro di società che si intende costruire.

Le scelte che riguardano la cura non sono quindi mai neutre, presuppongono sempre l'assunzione di responsabilità (di cura come di governo), nel prendere posizione in vista di determinati fini e sulla base di valori, principi, ideali, speranze, investimenti economici che si traducono in progetto, scelta, impegno, rischio, coraggio. Le politiche di cura sono chiamate ad essere interpreti delle trasformazioni e portatrici di innovazioni richieste dai cambiamenti nella società, nell’economia e nei comportamenti umani.

Un conto è parlare di “politicità” della cura come dimensione che coinvolge l'intera società, altro è parlare di una sua “politicizzazione” intesa come strumento utilizzabile da zone di interesse politico e di potere. Il contesto della cura e della politica contemporanee sono per questo attraversate anche da grandi ombre e criticità inquietanti, in un clima che sembra tendere verso forme di rinuncia alla priorità etico-politica, trasmettendo atteggiamenti di indifferenza, abbandonando empatia e compassione umana per affermare una rinata cultura fondata sull'idea di pensare solo a sé perché “gli altri” vengono dopo, non contano, sono un impedimento, un impaccio. Non potevamo immaginare, anche solo pochi anni fa, l’attuale diffuso sentimento di preoccupazione per la veloce e inesorabile trasformazione del contesto globale, degli esodi migratori, del terrorismo, della pervasività del web e delle conseguenti ripercussioni sui mondi della politica e su quelli cura in senso ampio.

Come è possibile che la verità dei post e dei tweet abbia inquinato in modo così pericoloso il dibattito pubblico, mettendo in discussione principi basilari di umanità e di rispetto per l'altro? Il sentimento che oggi si sta largamente diffondendo, dove si costruiscono muri e si stende filo spinato è quello di chi teme di essere invaso, che “odia il prossimo suo”, che vorrebbe difendere la roba propria, che è disposto a vedere morire persone in mare senza provare pietà. Eppure nostre radici della cultura occidentale, già nell'Iliade (canto XI) di Omero, ci racconta di Patroclo che, nell'infuriare della battaglia, salva e cura Euripilo ferito perché “n'ebbe compassione”. Così come nel Vangelo la parabola del samaritano ci descrive un uomo che semplicemente incontra un altro uomo ferito e malmenato e, senza tanti perché, “si prese cura di lui”. Non passa oltre. Non si volta dall'altra parte. Semplicemente “lo vide”. Laddove la demagogia e la disinformazione ci impediscono di vedere.

Imparare e re-imparare l’umanità è possibile? O dovremo consegnare il futuro a un proclamato “cambiamento” che guarda in realtà alle logiche di mercato? Anche nei suoi aspetti impensati, in ombra, taciuti, non verificabili e spiegabili, l’azione politica deve essere un atto vitale che e-merge, erompendo con forza trasformativa, dalle sovrastrutture, dai pregiudizi, dalla routine, dalle imposizioni delle ovvietà, dal “si” impersonale del “prendersi cura incurante” che disperde la dimensione etico-politica.

Il gesto politico non può dunque trascurare la domanda fondamentale del senso dell’agire politico la cui etica si fonda sulla cura dell'altro, qualunque sia la sua condizione economica, sociale, culturale. Quell’etica della cura, posta a fondamento dell’agire sociale, ci interpella nella nostra responsabilità e si connota come etica pubblica e politica che è costruzione di civiltà.

*Vanna Iori, pedagogista, è capogruppo PD in Commissione Sanità del Senato

Foto Unsplash

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