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Quando il Terzo settore è amico della Corte Costituzionale
Due anni fa la Consulta apriva alle consultazioni delle non profit. Ecco chi ha colto l'occasione e il peso che hanno avuto i loro pareri
Venticinquemila caratteri, spazi inclusi. Poco meno di una decina di cartelle. È lo spazio a disposizione per provare a convincere la Corte costituzionale che c’è un altro punto di vista, oltre quello delle parti in causa, che vale la pena ascoltare. Il parere della società civile. L’opinione di chi, come il terzo settore, conosce bene determinate questioni perché le studia sul campo quotidianamente. Parliamo dei cosiddetti “amici curiae”, gli amici della Corte, le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali portatori di interessi collettivi o diffusi che, da gennaio 2020, possono inviare alla Consulta un’opinione scritta su un caso di legittimità costituzionalità finito sotto la lente dei nove giudici.
Le associazioni che si sono attivate
Vita ha provato a fare un bilancio dei primi due anni di applicazione. Su 109 pareri inviati fino a novembre scorso (alcuni sottoscritti da più soggetti), metà all’incirca sono stati ammessi (57), un quarto respinti (23), un quarto (29) sono nella fase d’esame preliminare all’ammissione. Un’opportunità che il terzo settore non si è lasciata sfuggire. Secondo l’analisi effettuata da Vita sugli elenchi messi a disposizione dalla Corte (operazione non semplice in quanto le organizzazioni hanno una veste giuridica differenziata), almeno metà del centinaio e passa di “amici” sono enti non profit. L’altra metà sono invece sindacati o organizzazioni di settore come Anci, Confedilizia, Federdistribuzione. Fra gli ammessi, solo per citare alcune voci, ci sono Legambiente, Nessuno tocchi Caino, Associazione Luca Coscioni, AiBi Associazione amici dei bambini. Fra i non ammessi: associazione Vittime del dovere e Osservatorio nazionale sostegno vittime. Ancora in stand by Croce rossa e Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Il giudizio del non profit sulla novità è nel complesso positivo.
«Fino a gennaio 2020 un’associazione che voleva fare sentire la voce ricorreva a un escamotage: depositava un atto di intervento nel giudizio, aveva così accesso a tutti gli atti, partecipava anche all’udienza iniziale però poi era quasi scontato, vista la giurisprudenza severa della Corte, che l’intervento fosse dichiarato inammissibile. Questo peraltro creava problemi di riservatezza perché si aveva accesso a tutta la storia processuale della persona interessata dal procedimento», fa notare l’avvocato Vincenzo Miri dell’associazione di promozione sociale Rete Lenford-Avvocatura per i diritti Lgbt+. Oggi invece il mondo sociale ha più chance di essere ascoltato senza seguire vie traverse. L’amicus curiae, tuttavia, a differenza dei cosiddetti “intervenienti”, non diviene parte del processo, non ottiene copia degli atti e non partecipa all’udienza. Motivo per cui le deduzioni scritte devono essere molto persuasive. «È importante anche allegare la documentazione, in particolare lo statuto, per dimostrare il possesso dei requisiti e l’attinenza degli scopi dell’associazione alla materia trattata dalla Corte», suggerisce l’avvocato Laila Simoncelli, responsabile del servizio Diritti umani e giustizia della Comunità Papa Giovanni XXIII (tre opinioni presentate, due sulla maternità surrogata con Aibi e Famiglie per l’accoglienza).
Le modifiche da introdurre
Le opinioni inviate finora avrebbero avuto tuttavia uno scarso “peso” nelle motivazioni delle decisioni della Corte, secondo uno studio di Antonino Amato, dottore di ricerca in diritto costituzionale dell’università di Messina. Le argomentazioni degli “amici” trovano spazio solo in 11 sentenze. La Corte, questo forse uno degli aspetti più controversi, non spiega inoltre i motivi della non ammissibilità dell’opinione, salvo sia respinta per ragioni formali come l’invio fuori termine o appunto la mancanza di allegati. «La novità introdotta va salutata con favore. L’assenza di una motivazione sulle ragioni di esclusione impedisce che si formi un orientamento sul punto, conoscibile dai potenziali “amici”», osserva il giovane studioso Amato. «È vero che i paletti sono generici ma va bene così. La Corte forse ha voluto scoraggiare le formazioni che depositano opinioni senza un reale contenuto di utilità per il giudizio, pensiamo alle argomentazioni di tipo politico», chiosa l’avvocato Miri. Il quale propone invece un altro correttivo: consentire agli enti già ammessi di integrare le note inviate, specie quando l’udienza della Corte avviene a distanza dal deposito del primo parere. L’opinione, last but not least, non deve essere necessariamente redatta da un avvocato. Può farlo anche il presidente dell’ente non profit. Meglio farsi aiutare da un legale tuttavia.
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