Mondo
Cari pacifisti, non basta chiedere la pace
Le stesse manifestazioni di queste settimane e le organizzazioni promotrici dovrebbero portare idee e proposte che aiutino le piazze a capire come e a quali condizioni poterci arrivare, senza semplificazioni o fanatismi. Per potere sviluppare una cultura di pace capace di definire una piattaforma comune che dalla società civile arrivi alla politica e ai decisori politici
di Nino Sergi
Tutti vogliamo la pace, in Italia e in Europa. Il nostro continente è stato ferito dalle guerre che hanno dilaniato la Jugoslavia lasciando una lunga serie di divisioni e la voglia di rivalsa. Ora un’altra guerra ci tocca da vicino. Le democrazie europee hanno però saputo, con gli strumenti messi in atto nei decenni dopo la guerra mondiale tra il ’39 e il ’45, mantenere e rafforzare relazioni di pace e di progresso nel continente, pur in presenza di divergenti opzioni e priorità.
Non così è stato per il resto del mondo dove alle guerre locali e ai conflitti civili si sono aggiunti interventi militari internazionali dimostratisi improvvisati, senza chiarezza sugli obiettivi e sulle difficoltà, talvolta decisi storpiando il diritto internazionale, limitati spesso ad una presunta manifestazione di potenza che in definitiva ha indebolito l’Occidente e la sua credibilità. I risultati sono stati disastrosi con conseguenze che continuano a pesare sulla convivenza umana.
Il mondo unipolare derivato dall’implosione dell’Unione sovietica alla fine del ’91 ha fatto prevalere la propria superiorità e arroganza, trascurando i propri valori o superficialmente limitandoli ad un’inattuabile "esportazione della democrazia" o a blasfeme "guerre umanitarie", incapace di vedere le legittime aspirazioni che stavano crescendo e che meritavano considerazione. Quel mondo unipolare è finito comunque presto e si è persa l’occasione di tentare di costruire una governance multilaterale con regole condivise e senza umilianti esclusioni che normalmente generano risentimento e ripicca.
Non c’è stata negli anni ’90 intelligenza politica e leader politici all’altezza, con visioni lungimiranti e capacità di ridisegnare e proporre un nuovo ordine mondiale che tenesse insieme Nord-Sud e Est-Ovest definendo il ruolo in esso dell’Europa e dell’Occidente. Ci si è limitati ad osservare soddisfatti la decomposizione dell’Urss. Quanto all’ONU, gli Stati non hanno voluto cedere alle Nazioni Unite quegli spazi di sovranità che avrebbero potuto segnare una differente evoluzione nella gestione dei conflitti e nel mantenimento della pace. Hanno prevalso e continuano a prevalere gli interessi particolari, legati a visioni di corto respiro e spesso errate. E le conseguenze sono sotto i nostri occhi.
Ho conosciuto, dalla parte delle vittime, molte delle guerre degli ultimi quarant’anni. Da tutte è venuto lo stesso insegnamento: la guerra non risolve nulla ma sposta nel tempo e nel significato i problemi che l’hanno provocata, rinviandoli e lasciando ogni volta dietro di sé morte, orrori, macerie, odi. Chi la subisce, come oggi l’Ucraina, si difende più a lungo che può e deve poter ricevere il massimo di solidarietà e di aiuto.
L’anelito alla pace accomuna i paesi e le comunità democratiche. Vorremmo che l’aggressione russa finisse, che le truppe si ritirassero dai territori ucraini e che finissero i massacri e le distruzioni. La realtà è però ben diversa e rischia di prolungarsi per mesi, per anni, forse aggravandosi in modo pericoloso. L’uso di ordigni nucleari tattici in Ucraina creerebbe una situazione di grave pericolo per l’Europa e il mondo intero, dagli esiti difficilmente prevedibili.
Occorre quindi che si levi da più parti, società civile, accademia, economia, cultura, politica, governo, la richiesta di una svolta, a partire dall’Italia e l’Europa. Le manifestazioni di queste prossime settimane vanno in questo senso. Ben vengano. Ci comunicano una verità: è sempre possibile riprendere i fili del dialogo per cercare punti di incontro e porre fine ai conflitti bellici. Anche perché stanno emergendo lievi segnali politici di qualche disponibilità al dialogo, che vanno colti pur nella necessità di interpretarli, e di una nuova sotterranea azione diplomatica. Il dialogo permette di capire le ragioni altrui, scoprendo spesso che non sono né banali né infondate. Una politica che non crede più nella forza del dialogo e nell’iniziativa diplomatica è una politica cieca, senza speranza, senza futuro.
Non basta però che le manifestazioni denuncino l’aggressore e chiedano a gran voce la fine dell’aggressione e la pace. Non bastano i “Putin si ritiri” di alcuni o gli “Zelensky si fermi” di altri (quasi fossero intercambiabili!) o i “basta inviare armi”. Il profetico grido “tacciano le armi” che si alzerà dalle piazze e che dovrà penetrare ciascuno di noi richiede che venga rafforzato il lungo, paziente e instancabile lavoro perché esso diventi cultura collettiva e possa determinare le scelte politiche. Le stesse manifestazioni e le organizzazioni promotrici dovrebbero portare idee e proposte che aiutino le piazze a capire come e a quali condizioni poterci arrivare, senza semplificazioni o fanatismi. Per potere sviluppare una cultura di pace capace definire una piattaforma comune che dalla società civile arrivi alla politica e ai decisori politici.
La strada per la pace in Ucraina è lunga e incerta e richiede come primo risultato un cessate il fuoco. A questo dobbiamo puntare. Anche se attualmente può apparire impraticabile, la richiesta del cessate il fuoco e di una tregua – concordando condizioni che non favoriscano l’aggressore, proteggano e garantiscano l’aggredito e suscitino al contempo l’interesse di tutte le parti in causa – sarebbe indubbiamente il primo importante passo per avere il tempo necessario per pensare e trovare, col lavoro diplomatico, il dialogo e il negoziato politico, una credibile e giusta mediazione, indispensabile per giungere alla fine del conflitto. La ricerca della mediazione e il superamento delle difficoltà richiederanno un forte ruolo della politica internazionale e lo sviluppo di relazioni aperte al dialogo ed alla negoziazione, non solo per fare cessare il conflitto ma anche per ripensare e ridefinire l’ordinamento internazionale e le sue regole condivise, avviando quella trattativa globale che non si è voluto intraprendere dopo il cambiamento prodotto dal crollo dell’Urss. Il tema è tremendamente serio perché, senza un’illuminata iniziativa politica globale, si tende a ritornare verso un ordine del mondo fondato sui carri armati, la minaccia nucleare, l’equilibrio della paura (tra un nuovo Blocco asiatico e l’Occidente?), dove i valori dello Stato di diritto, delle libertà e della partecipazione democratica possono man mano venire cancellati.
Cosa può favorire il cessate il fuoco e una tregua che non rappresenti solo una pausa ma che permetta di avviare una seria negoziazione? Forse è proprio la prospettiva della definizione di un percorso che conduca a quel negoziato globale fondamentale per la pace e la sicurezza in Europa e nel mondo. La rilettura dei protocolli di Minsk e il ristabilimento della verità sull’aggressione armata e le pretese territoriali russe si inserirebbero così nella più ampia visione del processo per un rinnovato ordine globale da realizzarsi con il coinvolgimento, insieme a Russia e Ucraina, dei principali attori mondiali, in particolare Usa, Cina, Ue e Stati europei di maggiore peso (non solo economico ma anche di capacità di dialogo), oltre che dell’Onu e dell’Osce.
L’avvio dei negoziati grazie al cessate il fuoco dovrebbe portare innanzitutto a mutui impegni e concessioni quali il “simmetrico ritiro delle truppe e delle sanzioni, lo svolgimento di referendum nei territori contesi gestiti da autorità internazionali, la definizione della neutralità dell’Ucraina sotto tutela dell’Onu”, come recentemente proposto da 45 diplomatici italiani non più in servizio attivo e di differenti orientamenti politici personali. Dato l’irrigidimento e inasprimento delle posizioni sarà molto problematico arrivarci. Sia l’Ucraina che la Russia dovranno poter riconoscere in ogni mediazione e decisione la costruzione di un percorso utile, conveniente e politicamente vantaggioso. Impresa non facile ma possibile.
È anche per questo che l’orizzonte dei negoziati deve essere allargato all’intera Europa geografica (dall’Atlantico agli Urali) e alla sua sicurezza, all’Unione europea e al suo ruolo nel mondo, al sistema delle relazioni internazionali e della governance globale di fronte a sfide che potrebbero mettere a rischio l’intera umanità. La guerra e le conseguenze economiche e energetiche che ne sono derivate possono risolversi solo allargando lo sguardo oltre il conflitto in atto.
Potrebbe essere anche il modo migliore perché nessuno possa sentirsi umiliato dai risultati della trattativa e possa invece presentarli come un successo per essere stato protagonista nell’aver contribuito ad avviare un ripensamento delle relazioni internazionali e una migliore e rispettosa governance globale. Non si tratta certo di un tutto e subito ma di un progetto condiviso e indispensabile che si sviluppa a tappe, con precise cadenze e precisi impegni e garanzie, a partire dalla crisi causata dall’invasione russa in Ucraina. Tre in particolare i grandi temi che dovrebbero fare da cornice alla trattiva per la fine della guerra in Ucraina:
- 1) Un rinnovato ordine globale, congiuntamente definito non solo in base a ragioni di potenza e peso economico ma anche di riconoscimento della dignità di ogni Stato e edificato sui principi fondanti espressi nella carta delle Nazioni Unite: salvaguardia e rafforzamento della pace e sicurezza internazionale, riaffermazione dei diritti e delle libertà fondamentali di ogni essere umano senza distinzioni di razza, sesso, lingua o religione, il rispetto dei trattati internazionali, la promozione del progresso economico e sociale di tutti i popoli, efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace, la cooperazione internazionale per la soluzione dei problemi internazionali di carattere economico, sociale culturale od umanitario, una governance mondiale rinnovata per potere conseguire questi fini.
- 2) Il multilateralismo per affrontare i problemi globali che, oltre ad incidere pesantemente sulle persone e le comunità, sono spesso causa di tensioni e conflitti. Solo una convinta azione globale, condivisa e coordinata, può affrontare le grandi difficoltà e problematicità che mettono a rischio il pianeta, la sopravvivenza umana e la stessa comune convivenza: il cambiamento climatico e l’aumento delle temperature, la distruzione di biodiversità della terra, le spinte migratorie, il sistema economico e finanziario che opprime e uccide, la diffusa povertà che impedisce progresso e sviluppo, le grandi pandemie che non conoscono confini, il disarmo nucleare … e tanto altro.
- 3) Lo spazio politico europeo andrebbe ripensato nella visione geografica che dall’Atlantico arriva agli Urali, ristabilendovi legami e fiducia. Difficilissimo certo ma forse non così impossibile. Ne guadagnerebbe l’intera area. In questa visione, una nuova conferenza sulla sicurezza in Europa ravviverebbe lo spirito di Helsinki e rafforzerebbe la convivenza pacifica tra i popoli europei. In questo spazio europeo troverebbe rinnovato significato l’Unione europea che dovrà trovare nuovi fondamenti per esercitare un potere sovrano ed assumere l’iniziativa politica che le spetta nell’ordine mondiale, senza delegarla ad altri, con una difesa e sicurezza comune ed una comune visione del mondo e del suo ruolo nelle relazioni internazionali, pena il rischio di scomparire progressivamente. E non sarà certo a beneficio dei singoli stati europei.
- 4) Lo spazio unificante del Mediterraneo, ripensandolo come luogo di connessioni e di avvicinamento di frontiere, di popoli e culture. Il ruolo dell’Italia e dell’Europa ritorna ad essere essenziale.
PS: Penso che definire tutto questo utopia significa – specie per chi ha responsabilità politiche – aver perso, prima ancora di incominciare.
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