Welfare

I piccoli segreti della 460

L’articolo 13 permette alle aziende di “prestare” personale alle non profit riconoscendo una deduzione fiscale. Defiscalizzazione anche per donazioni sino al 2% del reddito di impresa.

di Francesco Maggio

La 460 è stata sicuramente una legge-topolino. Se poi si scopre che a oltre due anni dalla sua entrata in vigore, non è nemmeno stata interamente applicata, il topolino si trasforma in un?invisibile microbo. C?è voluto il sindacato Fiba Cisl della Banca popolare di Milano per scoprire gli altarini, promuovendo un?indagine tra i circa 6000 addetti della banca per sondare la loro disponibilità ad avvalersi dell?articolo 13 della 460 che prevede, tra l?altro, la deducibilità fiscale delle «spese relative all?impiego di lavoratori dipendenti, assunti a tempo indeterminato, utilizzati per prestazioni di servizi erogati a favore di onlus, nel limite del 5 per mille dell?ammontare complessivo delle spese per prestazioni di lavoro dipendente». Ecco dunque finalmente l?altro volto del decreto legislativo sulle onlus. Quello più bello, meno burocratico, più utile all?economia civile. E semisconosciuto.
In sostanza, la norma consente ai dipendenti di un?azienda di distaccarsi da essa e prestare, per un certo arco di tempo, attività di volontariato presso un ente non lucrativo. Ebbene, i dati emersi dall?analisi condotta tramite l?invio di questionari, elaborati poi dall?Istituto per la ricerca sociale, sono davvero sorprendenti. Innanzi tutto il 27% del personale ha dichiarato di fare già volontariato, una percentuale altissima se si tiene conto, per dare il senso delle proporzioni, che secondo le stime più attendibili corrisponde a circa il 10% la media della popolazione coinvolta in attività di volontariato. Ma, tornando all?articolo 13, è risultato che addirittura il 91% dei dipendenti che hanno risposto al questionario sostiene che la Bpm dovrebbe sfruttare le opportunità offerte dalla cosiddetta legge Zamagni, mentre il 74,5% ritiene che il ?distacco? sia la forma di gran lunga preferibile per avvicinare il mondo profit a quello non profit.
Cosa significa tutto questo, al di là del fatto che si tratta comunque di dati relativi ad una singola e, per molti versi unica, azienda? Una cosa molto semplice. Che nel mondo imprenditoriale italiano sono in tanti a volersi dedicare al non profit e che non appena intravvedono la possibilità di poterlo fare riuscendo a contemperare anche le esigenze professionali, non esitano minimamente a dare la propria disponibilità. «I risultati dell?indagine condotta dalla Fiba Cisl Bpm», sottolinea Savino Pezzotta, segretario confederale Cisl e attento osservatore di tutto quanto riguarda la nostra economia civile, «dimostra che stiamo andando inesorabilmente verso una pluralizzazione e complementarità dei sistemi economici. C?è bisogno, perciò», aggiunge Pezzotta, «che le imprese sociali dialoghino e collaborino con quelle for profit, che la new economy non arricchisca solo i più rapidi a muoversi su Internet ma aiuti pure a ridurre le disuguaglianze, che la finanza non sia solo speculativa ma diventi anche socialmente responsabile. E non di rado, a cogliere queste dinamiche sono i dipendenti di un?azienda, prima che il suo top management. Ben venga allora, da parte dell?impresa, una nuova consapevolezza circa il ruolo che essa svolge nella società, più aperto alle contaminazioni tra profit e non profit».
In realtà, una simile consapevolezza in alcune aziende comincia a maturare, anche indipendentemente dalla possibilità di usufruire di qualche forma di risparmio fiscale che il noto tributarista Salvatore Pettinato definisce implacabilmente «risibile». È il caso della Siemens e della Whirpool, che hanno distaccato dirigenti in servizio per installare in cooperative sociali sistemi di gestione e certificazione di qualità. Oppure della Asea Brown Boveri che ha messo a disposizione di organizzazioni di volontariato alcuni dipendenti in attività per fare formazione e consulenza. O ancora della Ibm, che tramite il progetto Newpolis consente ai suoi dipendenti in via di pensionamento di essere ancora professionalmente attivi presso le cooperative sociali del consorzio Gino Mattarelli.
Ma è ancora troppo poco. E in tutti i sensi. Prendiamo per esempio ancora l?articolo 13, stavolta laddove prevede la deducibilità fiscale ai fini della determinazione del reddito d?impresa delle «erogazioni liberali in denaro per un importo non superiore al 2% del reddito d?impresa dichiarato a favore delle onlus». Abbiamo fatto due calcoli spulciando i bilanci delle 4 aziende più redditizie in ciascuno dei 30 settori merceologici analizzati da Mediobanca nel suo ultimo rapporto sulle principali società italiane. Risultato? Applicando la suddetta percentuale, si libererebbero risorse da destinare a progetti di pubblica utilità per un importo pari a circa 1000 miliardi di lire all?anno.
Non sarebbe allora il caso che tanti nostri capitani d?industria, prima di lanciarsi in dichiarazioni sempre più frequenti e incaute a favore della solidarietà, cominciassero a sostenerla con i fatti?

Le opportunità della legge 460 art. 13 commentate da Stefano Zamagni

1° comma, punto c-sexies: «Sono deducibili dal reddito d?impresa le erogazioni liberali in denaro a favore delle Onlus, per importo non superiore a 4 milioni o al 2% del reddito d?impresa dichiarato»
Ma perché le aziende non si avvalgono diffusamente di questa facoltà? Forse perché sono tutte egoiste? Sono queste le domande che di solito ci si pone constatando come finora sia rimasto pressocché totalmente disatteso il dettato della norma. E probabilmente è anche vero che la propensione a sostenere la solidarietà delle nostre aziende non sia elevatissima. Ma non ritengo che sia questa l?unica spiegazione plausibile. Ve n?è un?altra altrettanto fondata e che risiede a mio avviso nel fatto che in Italia, gli spazi di intervento delle organizzazioni non profit, sono ancora piuttosto limitati. Se anche si rendessero disponibili in un sol colpo i circa 1000 miliardi ipotizzati, non credo che i nostri enti non lucrativi sarebbero capaci di spenderli tutti. Per la semplice ragione che in un Paese dove il principio di sussidiarietà rimane ancora lettera morta, è ben difficile che il Terzo settore possa liberare pienamente le sue potenzialità di crescita e convincere così le imprese ad allentare i cordoni della borsa usufruendo anche delle previste convenienze fiscali.

1° comma, punto c-sexties: «Sono deducibili dal reddito d?impresa le spese relative all?impiego di lavoratori dipendenti, assunti a tempo indeterminato, utilizzati per prestazioni di servizi erogate a favore di Onlus, nel limite del 5 per mille dell?ammontare complessivo delle spese per presatzioni di lavoro dipendente, così come risultano dalla dichiarazione dei redditi»
Anche stavolta, una domanda è d?obbligo: perché, tranne il caso della Banca popolare di Milano, finora si registra solo un timido interesse da parte delle imprese a distaccare dipendenti presso organizzazioni non profit? Anche stavolta la risposta non è affatto scontata come potrebbe sembrare di primo acchito, e cioè che non vi ravvisano una vera convenienza essendo abbastanza limitata la deducibilità. Non è così. Fino a quando gran parte degli enti non lucrativi saranno costretti solo ad eseguire ciò che viene deciso dagli enti pubblici (vedi le attuali forme di contracting out), fino a quando la riforma del welfare non decollerà, sarà difficile che essi riescano ad ?emanciparsi?. A pianificare autonomamente il proprio futuro, a individuare competenze e professionalità necessarie a svilupparsi e quindi, a rivolgersi alle aziende per coinvolgerle in progetti di crescita che prevedano il distacco temporaneo di personale qualificato.

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