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L’organizzazione umanitaria Moas compie sette anni

«Il 25 Agosto 2014», scrive Regina Catrambone direttrice Moas Migrant Offshore Aid Station, «mentre la nave di Ricerca e Soccorso Moas lasciava il porto Grand Harbour di Malta, con grande emozione iniziava la prima missione dell’organizzazione umanitaria che avevamo fondato per salvare profughi e persone migranti che stavano perdendo la vita in mare»

di Redazione

Il 25 Agosto 2014, mentre la nave di Ricerca e Soccorso MOAS lasciava il porto Grand Harbour di Malta, con grande emozione iniziava la prima missione dell’organizzazione umanitaria che avevamo fondato per salvare profughi e persone migranti che stavano perdendo la vita in mare.

Con MOAS stavamo lanciando per la prima volta nella storia un’iniziativa privata di Ricerca e Soccorso (SAR) nel Mediterraneo centrale con l’utilizzo della tecnologia dei droni. I nostri obiettivi erano quattro: salvare più vite possibili, portare in mare fotografi e giornalisti per permettere a tutti di conoscere con occhio neutrale quello che stava avvenendo, ispirare altri ad attivarsi e far sì che gli Stati europei prendessero in mano la situazione con un’idea di medio-lungo termine.

Un anno dopo ricevevo l’onorificenza di Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana dal Presidente Mattarella per il contributo offerto attraverso MOAS nella localizzazione e assistenza delle persone migranti in difficoltà nel Mediterraneo. Un’emozione forte e un riconoscimento molto importante per una scelta inevitabile, quella di salvare vite umane in mare, che destava e ancora desta dubbi e diffidenza. Un sentimento intenso come quello che ho provato negli anni a bordo delle navi nel salvare le persone che stavano per annegare disperatamente tra le onde. Lo stesso sentimento che il team MOAS ha provato nell’avvistare con droni e aerei le 40.000 persone che abbiamo salvato mentre rischiavano di perdere la vita durante le pericolose traversate in fuga da persecuzioni, violenze, guerre e povertà nella speranza di una vita migliore. Da quell’agosto del 2014 sono trascorsi ben sette anni ma nel Mediterraneo, seppur tante vite continuano a essere salvate, si continua a morire.

Nonostante il contributo delle ONG e della comunicazione che ha portato alle persone a casa i racconti e le immagini di ciò che stava avvenendo, gli Stati Europei non hanno ancora attivato una missione di ricerca, soccorso, salvataggio e ricollocamento, ponendo attenzione esclusivamente al controllo dei confini. Oggi, come ieri, giorno dopo giorno, un numero inaccettabile di vite umane finisce nel fondo del Mediterraneo. Si muore ancora annegati durante il tentativo di attraversare un confine, mentre l’Europa stringe accordi con Stati e Guardie Costiere di Paesi Terzi che non rispettano i diritti fondamentali riconosciuti nelle più importanti dichiarazioni a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Così come in Afghanistan, tornato nelle mani dei talebani, dove a seguito della restaurazione dell’Emirato Islamico si assiste a un grave deterioramento di quei diritti umani faticosamente conquistati nel corso degli ultimi venti anni. I cittadini afgani devono essere aiutati a lasciare il Paese in sicurezza ed essere accolti in modo legale. Bisogna proteggere le vite di tante famiglie, bambini, donne, uomini e persone vulnerabili che rischiano la vita e pesanti ripercussioni. Gli afgani hanno il diritto di vivere con dignità e in sicurezza, ma senza un piano concreto di evacuazione da parte degli Stati Uniti in coordinamento con gli Stati Nato che sono stati coinvolti in questa missione per tanti anni, sarà impossibile salvargli la vita.

Si continua a morire anche nel canale della Manica dove, in assenza di vie sicure, le persone salgono su imbarcazioni di fortuna per cercare di arrivare in Inghilterra rischiando di perdere la vita. Si annega anche nei campi profughi del Bangladesh dove vivono quasi 900.000 rifugiati Rohingya fuggiti dalle atroci violenze subite in Myanmar. Le piogge monsoniche delle ultime settimane in pochi giorni hanno colpito più di 70.000 persone rifugiate distruggendo i loro umili e precari rifugi e producendo quasi 25.000 sfollati. Otto persone hanno perso la vita, tra i quali un bambino di soli 8 anni.

Dal 2017 MOAS si trova al fianco dei Rohingya, dapprima offrendo assistenza medica a più di 90.000 persone e successivamente con i corsi di salvataggio in acqua “Flood and Water Safety Training”, grazie ai quali 3.000 persone, donne e uomini, possono cooperare per salvare vite laddove ce ne fosse la necessità.

“La corrente dell’acqua mi stava trascinando via perché non so nuotare. I volontari mi hanno lanciato una throw bag e mi hanno tirato fuori dall’acqua salvandomi la vita”. Questa è la frase pronunciata da Mohamed, un bambino di 12 anni salvato da uno dei volontari che aveva partecipato al corso di salvataggio Flood and Water Safety Training, che mi rimarrà nel cuore ed è un esempio tangibile dell’importanza di questa iniziativa.

Tra le attività delle nostre missioni non posso dimenticare le spedizioni di farmaci salvavita per aiutare le persone che ne hanno bisogno e supplementi nutrizionali contro la malnutrizione infantile in Yemen e in Somalia e i programmi avviati durante il lockdown in risposta alla pandemia del Covid19, come la realizzazione delle mascherine che nel Bangladesh e a Malta hanno contribuito al contenimento di questa pandemia e il Remote Learning Project che ha permesso ai bambini che vivono nei centri migranti di continuare a seguire le lezioni da remoto.

La mia gratitudine va a tutti i sostenitori, i donatori, i partners e il team MOAS con i quali da 7 anni ci troviamo insieme sulla stessa “barca della speranza” continuando a remare nella stessa direzione in aiuto dei più poveri e dei più bisognosi.

*Regina Catrambone direttrice Moas Migrant Offshore Aid Station

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