Formazione

Benvenuto il nuovo pacifismo

L’Occidente e la sicurezza. Il vecchio pacifismo individuale non è più adeguato ai tempi. Ora ce ne vuole uno istituzionale.

di Stefano Zamagni

L?intervento armato in Afghanistan, che ha fatto seguito al tragico e cinico attacco terroristico dell?11 settembre, costituisce il quinto episodio di rilievo della ?nuova epoca della guerra? che si è aperta con la caduta del muro di Berlino. Due le novità di rilievo di questa nuova epoca.
La fine della guerra fredda (la quale, malgrado i gravi pericoli insiti nella logica della deterrenza reciproca, ha contrassegnato una lunga fase di stabilità) ha costretto di fatto gli Usa a occuparsi sempre meno dello sviluppo dei Paesi poveri del Sud del mondo allo scopo di contrastare la diffusione del sovietismo e a concentrare sempre più i propri sforzi sul sostegno a regimi corrotti e autoritari. Infatti, una potenza egemone, quale che essa sia, ha sempre come primario obiettivo quello di conservare l?ordine esistente, anche se questo esige che si chiudano gli occhi di fronte all?aumento delle disuguaglianze o alla riduzione degli spazi di libertà delle persone.

Paesi sotto tutela
A ciò si deve aggiungere la ?questione petrolio?. Le riserve di petrolio del mondo sono in gran parte concentrate nei Paesi del Medio Oriente, che ne esportano 17,4 milioni di barili al giorno: il 70% di quanto è necessario al mondo industrializzato. Riusciamo così a capire, ma non a giustificare, perché il mondo industrializzato continui a esercitare su questi Paesi una sorta di tutela che finisce con il legittimare situazioni di precarietà politica e socio-economica. Sono queste le situazioni che, oltre a generare imponenti flussi migratori, costituiscono un terreno favorevole allo sviluppo del terrorismo anti-occidentale.
La seconda novità di cui sopra si diceva è che, fino a oggi, non si era mai pensato alla globalizzazione in situazione di guerra. Anzi, se c?era un convincimento diffuso, tra studiosi e opinionisti, questo era proprio che la globalizzazione, pur con i suoi difetti, servisse la causa della pace. Si veda, fra i tanti, l?influente volume di Robert Cooper (The Postmodern State and the World Order, Londra, 2000) dove viene difesa la tesi secondo cui la società post moderna, il cui inizio viene fatto coincidere con l?avvento del processo di globalizzazione, è una società inerentemente pacifica. E invece i fatti dell?11 settembre si sono incaricati di obbligare anche i più restii, a prendere atto di ciò che si sarebbe dovuto vedere già da parecchi anni e cioè che la globalizzazione è sì un gioco a somma positiva che aumenta reddito e ricchezza complessivi, ma è al tempo stesso un gioco che tende ad aumentare le distanze sociali sia tra Paesi diversi sia tra gruppi sociali diversi all?interno di un medesimo Paese, pur se ricco.

La povertà relativa
In altro modo, la globalizzazione, mentre riduce i poveri in senso assoluto, aumenta in modo impressionante i poveri in senso relativo, cioè le diseguaglianze. Ebbene, si deve sapere che è l?aumento, al di sopra di una certa soglia, delle povertà relative, e non di quelle assolute, a creare i presupposti per lo sviluppo delle guerre. Non solo, ma è lo stesso principio democratico che, come emerge da un recente studio delle Nazioni Unite, viene calpestato dall?aumento progressivo delle ineguaglianze.
Ecco perché è urgente muovere passi veloci verso un nuovo pacifismo, quello che è stato chiamato istituzionale e il cui slogan potrebbe essere: «se vuoi la pace prepara istituzioni di pace».
Due i pilastri su cui poggia il pacifismo istituzionale. Il primo è il riconoscimento della necessità dell?istituzione di un potere reale di regolazione dei conflitti e della sua dislocazione sovranazionale (e non semplicemente internazionale, come è ancora oggi). Ciò significa che non è sufficiente operare per l?educazione alla non violenza; occorre dare uno sbocco razionale al consenso morale verso l?uso qualificato della forza armata. A tale riguardo, può aiutare la considerazione che la potenza economica e militare non è più oggi garanzia di sicurezza, come lo è stato per secoli. D?altro canto, senza sicurezza, le società non sono più in grado di godere dei benefici che discendono dagli aumenti di ricchezza. è questa una contraddizione nuova dell?attuale fase di sviluppo, dalla quale nasce ciò che Krugman ha chiamato l?economia della paura: a che giova sacrificarsi e produrre quantità crescenti di beni e servizi se poi l?insicurezza non ci consente di goderne?
Il secondo pilastro è quello di rendere credibile il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti. Come spiega R. Tamburini (From Kuwait to Kosovo: what have we learned?, Trento, 2000), la dottrina della deterrenza consiste nella minaccia credibile verso l?aggressione potenziale, come accade ancor?oggi col dispositivo di intervento della Nato. Invece, il ripudio della guerra viene costruito a partire dalla difesa credibile dell?aggredito potenziale. Si può dimostrare che se un tale principio fosse già stato accolto dal Consiglio di sicurezza dell?Onu, oltre che dalle altre agenzie internazionali, i conflitti bellici dell?ultimo decennio si sarebbero in gran parte potuti evitare.

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