Welfare

L’impatto sociale non è solo questione di metriche, ma di legami

La recensione a cura di Flaviano Zandonai dell'ultimo libro di Walter Siti, “Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura” (Rizzoli), in cui l'autore «problematizza il legame sempre più stretto che si tende a stabilire tra l’esposizione a iniziative in senso lato sociali e la generazione di benessere a livello individuale e collettivo»

di Flaviano Zandonai

Contro l’impegno”, l’ultimo libro di Walter Siti, ha tutte le caratteristiche tipiche del pamphlet. È un libretto (lo chiama così anche l’autore) di dimensioni contenute che ripropone in buona parte scritti già pubblicati. E soprattutto è ben puntito, nel senso che circoscrive l’oggetto del contendere – la letteratura orientata all’impegno sociale – e individua i suoi bersagli polemici rappresentati da alcuni autori di grido, soprattutto a livello nazionale.


Il successo di questa formula è speculare al suo rischio, ovvero di venire risucchiati da una vis polemica riguardante un argomento che per quanto rilevante sta all’interno di un contesto circoscritto. Un’analisi che tende a esaurirsi nel suo svilupparsi.

In realtà non è così, o non del tutto così perché il libro introduce, soprattutto nella parte iniziale, un ulteriore livello di lettura che chiama in causa altri ambiti e soggetti, ricollegandosi a questioni di più ampia e stretta attualità e che vedono nel Terzo settore uno dei principali protagonisti (anche se non l’unico).

L’oggetto del contendere consiste, in buona sostanza, nel problematizzare il legame sempre più stretto che si tende a stabilire (e a narrare) tra l’esposizione a iniziative in senso lato sociali (che magari i beneficiari stessi hanno anche contribuito a progettare) e la generazione di benessere a livello individuale e collettivo. Un nesso, ben rappresentato ad esempio da progettualità di welfare culturale, intorno al quale si concentrano investimenti (non solo pubblici ma anche filantropici e finanziari) rispetto ai quali diventa sempre più cruciale misurarne l’efficacia.

È abbastanza facile, da questo punto di vista, ricondurre un legame statuito in modo intenzionale, misurabile e addizionale negli effetti all’impatto sociale. Un discorso, prima ancora che un insieme di indici e indicatori, che monopolizza sempre più l’ambito della valutazione, ma che investe progressivamente logiche e modelli progettuali, assetti organizzativi e di governance e, non da ultimo, contenuti che sostanziano le missioni delle politiche.

C’è qualcosa di male o di sbagliato in questo approccio? Forse non in senso assoluto, ma certamente va evidenziato, come fa Siti per la letteratura impegnata, che “fare del bene” passa spesso da meccanismi che prevedono rotture problematiche, perdita di controllo sui processi, possibilità di fallimento. Anzi forse sono proprio questi aspetti che sfuggono ai nessi causali di certe declinazioni “ingegneristiche” della social impact value chain a rappresentare il vero elemento di intenzionalità da parte di coloro che li innescano facendosene carico. Preventivare gli effetti attesi seguendo meccanismi di razionalità mezzi / fini – la cui origine culturale risiede peraltro nella ben nota “gabbia d’acciaio” tecnocratica – fa correre il rischio non solo di essere soggiogati da effetti talmente predefiniti da portare fuori strada, ma di generare una grande quantità di scarti in termini di risorse poco o male utilizzate e di opportunità non colte o colte solo in parte e che quindi rendono questi processi, a modo loro, insostenibili.

Chissà se Siti col suo libello voleva dirci (anche) questo. Ma ha comunque il merito di evidenziare che la partita legata all’impatto sociale non può essere affrontata solo partendo dalla coda, ovvero dalla battaglia sulle metriche, ma soprattutto dalla testa, ovvero dalla natura dei legami che s’intendono stabilire tra interventi e loro effetti, cercando di coglierne meglio la complessità e l’ambivalenza. Fosse così reimpostata la partita sarebbe ancora più interessante.


Photo by Milena Trifonova on Unsplash

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