Welfare

Una stanza tutta per noi

Fidanzarsi, vivere insieme, sposarsi: per le persone con sindrome di Down è ancora raro ma sempre più percepito come qualcosa di possibile. CoorDown dedica il suo convegno nazionale a sessualità e disabilità intellettiva, affermando che «l'amore ha bisogno di spazio». La formatrice Donatella Oggier-Fusi: «In vent'anni ho visto un solo matrimonio e conosco una sola struttura residenziale con camere comunicanti per eventuali coppie. Lo spazio mentale però adesso c'è, nelle famiglie e negli operatori. Per coerenza e onestà ora dobbiamo creare esperienze concrete, percorsi educativi, spazi fisici»

di Sara De Carli

«Le famiglie chiedono “ma io come posso chiudere la porta della camera da letto e stare tranquillo?”. E dall’altra parte i ragazzi chiedono “come faccio a convincere i miei a lasciarci chiudere la porta?”. Chiudere la porta è il tema. Il nostro compito è accompagnare le persone perché a un certo momento, se loro lo desiderano, quella porta la si possa chiudere con tranquillità. Ascoltarle nelle loro domande e nei loro sogni, innanzitutto, per capire loro cosa pensano che possa succedere in camera da letto, perché noi magari immaginiamo subito l’atto sessuale e invece il loro desiderio è farsi le coccole, sdraiarsi uno accanto all’altro, dormire insieme». Donatella Oggier-Fusi è una formatrice nel campo dell’educazione alla vita affettiva ed intima di giovani e adulti con disabilità, lavora in Canton Ticino ed è una consulente dell’associazione di famiglie Atgabbes. Domani sarà a Rimini per il convegno nazionale di CoorDown, dal titolo “L’amore ha bisogno di spazio”. Un convegno che mette a confronto esperti, famiglie, operatori, insegnanti e persone con sindrome di Down su sessualità e disabilità intellettiva e sulla costruzione di percorsi educativi condivisi che accompagnino a vivere le relazioni e la sessualità. È un tema già lanciato a livello mondiale lo scorso 21 marzo, in occasione della Giornata Mondiale sulla sindrome di Down, con la campagna internazionale “JUST THE TWO OF US” in cui i due giovani protagonisti cercavano il loro spazio di intimità, scalfendo la presenza ingombrante delle rispettive famiglie.

Cominciamo da una bella notizia. Ieri sui social ha spopolato un post della Casa al Sole di Pordenone che raccontava del matrimonio di Elena e Spartaco, entrambi con sindrome di Down. Storie come la loro sono ancora eccezioni, ma quando cominciano ad essere meno rare?

Io vivo e lavoro in Canton Ticino, la realtà che conosco bene quindi è molto piccola, ma pur occupandomi proprio di questo da vent’anni, il primo matrimonio tra persone con sindrome di Down che ho visto è stato celebrato lo scorso maggio. Sono eccezioni ancora, ma qualcosa è cambiato: il poter immaginare che si possa fare. Non è una cosa da poco. Stiamo cominciando a dare uno spazio mentale, – genitori e operatori – a questo tema. Stiamo cominciando a immaginare spazi di possibilità. Questo è già un passo avanti. Il grande lavoro da fare ora è rendere fisici questi spazi, per coerenza e per onestà. È questo il lavoro educativo che va fatto. Ma se prima, a monte, non immaginiamo una possibilità… non ci metteremo mai al lavoro.

Come si traducono questi spazi mentali "di possibilità" in spazi fisici? Al di là dei muri ovviamente.

Intanto anche i muri non sono scontati. Qui in Canton Ticino esistono molto istituti per persone con disabilità, alcuni nuovissimi: anche se sono realtà molto aperte, posso dire che c’è solo un istituto che ha previsto delle camere comunicanti per delle eventuali coppie. La coppia che si è spostata a maggio, vive proprio lì. Lo ha fatto già 10 anni fa, quando ha costruito il nuovo immobile. Altre strutture sono nuovissime, ma non hanno pensato ad avere camere doppie o comunicanti, perché per realizzare lo spazio fisico – ripeto – prima devi aver immaginato la possibilità, a livello di spazio mentale.

Pur occupandomi da vent’anni di educazione alla vita affettiva ed intima di giovani e adulti con disabilità, il primo matrimonio tra persone con sindrome di Down che ho visto è stato celebrato lo scorso maggio. Sono eccezioni ancora, ma qualcosa è cambiato: stiamo cominciando a dare uno spazio mentale – genitori e operatori – a questo tema. Stiamo cominciando a immaginare spazi di possibilità. Questo è già un passo avanti. Il grande lavoro da fare ora è rendere fisici questi spazi, per coerenza e per onestà.

Donatella Oggier-Fusi


Con che tipo di percorsi si possono accompagnare le persone con disabilità intellettiva lungo le strade dell’affettività e della sessualità?

Significa innanzitutto moltiplicare le occasioni per parlare di adultità, crescita e dare strumenti concreti per le autonomie, per l’autodeterminazione, per poter fare delle scelte. Proprio ieri sera in un corso sulla vita da adulti una ragazza ha detto “Io vorrei poter avere una famiglia e potermi sposare”. Nella mia esperienza è molto forte – penso valga anche in Italia – la consapevolezza che non puoi fare percorsi di questo tipo solo con le persone con disabilità, devi proporre percorsi paralleli anche alle famiglie e agli operatori, perché occorre costruire alleanze per fare pezzi di strada insieme. Questo non significa cadere nell’idea che la famiglia è un ostacolo o è debole: no, la famiglia è forte, fa tanto ma a un certo punto è giusto che ci siano anche altre figure. Sappiamo tutti che tutti i figli si staccano dai genitori per parlare di sessualità, serve aprire spazi esterni alla famiglia. E torniamo ancora alla questione degli spazi.

Recentemente EDF ha pubblicato un rapporto intitolato “La sterilizzazione forzata delle persone con disabilità nell’Unione Europea”, parla dei quattordici Paesi dell’Unione le cui leggi consentono ancora la sterilizzazione forzata delle persone con disabilità, tre dei quali anche su minori e di quelli in cui è prassi inserirla come requisito per l’ammissione alle strutture residenziali, che spesso, sono ancora l’unica scelta concessa alle persone con disabilità.

In Svizzera la sterilizzazione è vietata e siamo stati fra le ultime nazioni ad abbandonare questa pratica. Fino agli anni ‘70 veniva fatta regolarmente. Il punto è che il tema della sessualità di persone con disabilità non può più essere eluso, va affrontato con le persone e si può affrontare solo dal punto di vista educativo. Si lavora sulla conoscenza del corpo, sulla fisiologia, sul rendere attenti alle conseguenze di un rapporto sessuale. Io accompagno spesso i giovani a scegliere un metodo di contraccezione, ma è importante che questa sia una scelta, perché altrimenti non fai la sterilizzazione ma fai la contraccezione forzata, senza spiegare cosa sia, ingannando le donne e facendogli pensare di prendere una pastiglia omeopatica. Bisogna lavorare tanto con le risorse del territorio, ad esempio con i consultori: in questo momento stanno traducendo in linguaggio facile da comprendere molto materiale informativo sulla contraccezione, le malattie sessualmente trasmissibili… il nostro compito è accompagnare e fare da mediatori per far sì che le informazioni siano accessibili e comprensibili.

Va bene l’informazione e i depliant in linguaggio easy to read. Ma poi nella concretezza, quando e come si decide che "si può chiudere la porta" della camera da letto?

Chiudere la porta è il tema ricorrente. Le famiglie chiedono “ma io come posso chiudere la porta della camera da letto e stare tranquillo?”. E dall’altra parte i ragazzi chiedono “come convinco i miei a lasciarci chiudere la porta?”. Il nostro compito è accompagnare le persone perché a un certo momento, se loro lo desiderano, quella porta la si possa chiudere con tranquillità. Ascoltarle nelle loro domande e nei loro sogni, innanzitutto, per capire loro cosa pensano che possa succedere in camera da letto, perché noi magari immaginiamo subito l’atto sessuale e invece il loro desiderio è farsi le coccole, sdraiarsi uno accanto all’altro, dormire insieme. Dare le competenze necessarie significa come minimo conoscere se stessi e il corpo dell’altro. Io lavoro tanto anche con le bambole sessuate, devo capire che hanno capito. Ma anche questo non basta: dobbiamo essere sicuri che sappiano riconoscere le emozioni, proprie e dell’altro, sapersi fermare davanti a un “no”, a un “fermati, quello che sta succedendo non mi piace”. Di recente ho accompagnato una coppia che aveva chiesto di poter stare in camera insieme, da soli, dentro una comunità. D’accordo con le famiglie e gli operatori è stato fatto un patto, ”ok, quando saremo sicuri che avrete tutte le informazioni e le capacità”. Abbiamo lavorato sei mesi e alla fine hanno avuto il permesso di dormire insieme, in una camera tutta loro. Qualche mese dopo si sono lasciati. Questo per dire che i percorsi non sono mai finiti.

Dare le competenze necessarie significa come minimo conoscere se stessi e il corpo dell’altro. Ma anche questo non basta: dobbiamo essere sicuri che sappiano riconoscere le emozioni, proprie e dell’altro, sapersi fermare davanti a un “no”, a un “fermati, quello che sta succedendo non mi piace”.

Cos'è che fa dire "sono pronti"?

In realtà spesso ci facciamo tanti problemi, ma loro fanno domande molto dirette: “mi devo togliere i vestiti?”, chiedono. Oppure hanno ben chiaro che “togliersi i vestiti sì, ma le mutandine no”. Ascoltando i loro desideri c’è molto desiderio di intimità, di affettività, di coccole, non sempre c’è il desiderio di un rapporto sessuale completo. La mamma di una ragazza di 22 anni mi raccontava che quest’estate hanno invitato il fidanzato della figlia in montagna, entrambi con la sindrome di Down: immaginavano che desiderassero stare insieme in intimità e invece i due non hanno voluto dormire insieme… ognuno è andato nella sua camera. Eppure si sentono una coppia. Conta moltissimo la rilevanza sociale dell’essere in coppia e avere una casa propria, perché a livello di riconoscimento sociale essere adulti significa tendenzialmente – questo vale per un po' per tutti – uscire dalla casa dei genitori, avere un lavoro, essere in coppia, avere una propria famiglia. Insomma, ascoltiamo le persone, ci sorprendono sempre. Per questo quando faccio formazione agli operatori parto con il lavoro sulle nostre rappresentazioni, perché poi saltiamo spesso a conclusioni che non sono quelle della persona che abbiamo di fronte. Altrimenti rischiamo di offrire spazi che non sono quelli desiderati, attesi, necessari.

Info sul programma della giornata “L’amore ha bisogno di spazio” su www.coordown.it/convegno. Le foto che illustrano l'articolo sono dalla campagna Just The Two Of Us

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