Welfare

I miti culturali che stanno spegnendo le adozioni internazionali

Il mito dell’assistenza, il mito della famiglia di origine, il mito della cultura del Paese d'origine: per il Presidente di AiBi questi tre argomenti stanno facendo spegnere le adozioni internazionali. Così che oggi aumentano le "neglect list": elenchi con migliaia di minori abbandonati, inviati periodicamente dai Paesi di origine agli enti autorizzati, nella speranza che qualcuno di loro possa essere adottato

di Marco Griffini

Si è svolta dal 6 al 9 luglio presso l’Università Cattolica di Milano la settima edizione dell’International Conference on Adoption Research, che ha richiamato oltre 200 esperti provenienti da 27 Paesi del Mondo per presentare “i contributi più innovativi della ricerca e dell’intervento nel campo delle adozioni”. Per l’importanza dell’evento, sono stati definiti come gli "Stati Generali” dell’Adozione Internazionale: in realtà, mi sembra un po’ esagerato.

Non tanto perché a questo consesso mancavano i veri protagonisti dell’accoglienza adottiva (le famiglie adottive e coloro che tutelano gli interessi e i diritti dei minori abbandonati, cioè gli enti autorizzati e le associazioni familiari), ma più che altro perché non sono stati affrontati i veri nodi che attanagliano l’adozione internazionale e ne stanno minacciando la stessa sopravvivenza.

Il diritto di ogni bambino a essere figlio

Il punto non è continuare a studiare il fenomeno dell’adozione internazionale, ma cercare di capire perché questa stupenda forma di solidarietà si stia spegnendo, senza avanzare assurde ipotesi – di chi evidentemente poco conosce il mondo dei minori abbandonati – come l’aumento delle adozioni nazionali o degli affidamenti nei Paesi di origine.

Il problema, oggi, sono le "neglect list", di cui non si è sentito alcuna eco nei giorni del convegno. Elenchi su elenchi di migliaia di minori abbandonati, inviati periodicamente dai Paesi di origine agli enti autorizzati nella speranza che qualcuno di loro possa essere adottato. Elenchi tutti uguali, sia che provengano dal Sud America o dai Paesi dell’Est: minori dai 12/13 anni in su con storie pressoché identiche, abbandonati nei primi anni della loro infanzia e costretti a vivere per anni e anni in istituti, finché qualcuno, accorgendosi anche di loro, li proietta fuori dal "limbo dell’abbandono". Quando ormai, però, è troppo tardi: quante famiglie, infatti, sono disponibili ad adottare minori adolescenti?

Il problema, oggi, è la mancanza di un sacrosanto diritto, la più grave lacuna della Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia del 1989: il diritto per ogni bambino a essere figlio! Nemmeno di questo c’è stata traccia nel convegno internazionale appena concluso. Così, in assenza di questo fondamentale diritto, iscritto e sancito nella natura stessa dell’umanità, ciascuno può "fare ciò che vuole" della propria infanzia in difficoltà e dare fiato a un altro grande problema che sta attanagliando oggi l’adozione e di cui nessuno sembra preoccuparsi: i "miti" culturali che impediscono di fatto ai bambini abbandonati di essere considerati "persone portatori di diritti".

Sconfiggere i “miti culturali” dell’adozione

Quali sono i pericolosi e distruttivi miti dell’adozione? Eccoli.

Il mito dell’assistenza, che esprime tutta la sua efficacia nel momento in cui si ritiene che la risposta dell’assistenza possa superare, annullare, sconfiggere l’abbandono. Ma, in realtà, un bambino abbandonato, anche se ottimamente assistito, non potrà mai essere un figlio, finché resta abbandonato.

Il mito della famiglia di origine, quel legame di sangue che configura una sorta di diritto di proprietà dell’adulto sul minore. Così, assistiamo, in nome di tale mito, a migliaia di vite consumate nell’attesa di un evento che mai si verificherà: il ritorno nella famiglia di origine a dispetto di un’accoglienza definitiva, stabile, in una nuova famiglia preparata e responsabile.

Infine, il più dannoso: il mito della cultura del Paese di origine, rappresentato dalle divisioni etniche e culturali, dalla salvaguardia delle proprie tradizioni, dalla volontà di far crescere i bambini abbandonati solo nella propria nazione, anche se non si è in grado di garantire loro il "diritto di essere figlio". «Meglio un bambino abbandonato, ma nel suo Paese, che strappato dal proprio contesto etnico per trapiantarlo in uno differente: è un’operazione innaturale che renderà il minore incapace di adattarsi alla nuova realtà»: forse, chi afferma questo non conosce il triste destino cui sono condannati i bambini abbandonati. Cosa è più innaturale? Lasciare che un bambino resti segnato per sempre dalla solitudine dell’abbandono o che trovi, seppure in un altro continente, l’amore accogliente di una madre e un padre? Tanti Paesi hanno chiuso le adozioni internazionali – e continuano a tenerle chiuse – a causa di questo mito!

Non chiamiamoli, quindi, gli "Stati Generali dell’Adozione Internazionale". Questi li potremo celebrare realmente quando, tutti insieme – ricercatori, politici, istituzioni, famiglie, enti, ONG…- riusciremo a far approvare dalla Assemblea dell’Onu l’emendamento alla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia con il riconoscimento che «ogni bambino che viene concepito su questa nostra terra ha il diritto di essere figlio». Solo allora avremo la certezza che l’adozione internazionale sarà finalmente considerata per ciò che è stata pensata e voluta: un sistema di protezione, tutela e garanzia per il diritto di ogni bambino abbandonato a essere e vivere da figlio, in qualsiasi Paese del mondo esso si trovi.

*Marco Griffini, presidente di Ai.Bi – Amici dei Bambini

Photo by Guillaume de Germain on Unsplash

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