Mondo
Fiumi, cartina tornasole del cambiamento climatico
Domenica 25 settembre è il World Rivers Day, la giornata mondiale dei fiumi. WWF: «Intanto il Piano Nazionale di Adattamento al Cambiamento Climatico è fermo dal 2017»
di Redazione
I tragici fatti di questi giorni che hanno colpito le Marche hanno riportato l’attenzione sulla crisi climatica in atto e sulla estrema vulnerabilità del nostro territorio, martoriato da decenni di cattiva gestione. Siamo improvvisamente passati dall’emergenza siccità a quella alluvioni. Ma sono due facce della stessa medaglia. Gli oltre 400 millimetri di pioggia caduti su quella regione in poche ore non devono farci dimenticare la siccità peggiore degli ultimi 70 anni. Ma questa altalena tra fenomeni estremi rispecchia la prevista evoluzione del cambiamento climatico nella regione mediterranea che è – e sarà sempre più – interessata da drammatiche ondate di calore alternate a precipitazioni intense, concentrate in breve tempo.
Ma non possiamo dare la colpa di ciò che è successo al solo cambiamento climatico. Negli ultimi anni abbiamo fatto di tutto per costruire una ‘tempesta perfetta’, canalizzando in maniera eccessiva gli alvei fluviali, impermeabilizzando con cemento e asfalto (ovvero "consumando") il suolo a ritmi altissimi. Negli ultimi 50 anni circa 2.000 km2 di aree di esondazione naturali hanno subito varie forme di urbanizzazione con trasformazioni più intense lungo le sponde dei fiumi, dal 3,56% al 25,7%. In ogni regione abbiamo costretto i corsi d’acqua in alvei ristretti e ridotte le zone di esondazione naturale, ormai totalmente insufficienti a contenere le piene. Il consumo di suolo non si è mai fermato, come evidenziato anche dall’ISPRA: entro i 150 metri dai corpi idrici a livello nazionale abbiamo consumato l’8,3% di suolo, un dato salito tra il 2020 e il 2021 dello 0,27%. Solo negli ultimi due anni (tra l’altro caratterizzati da un rallentamento dell’economia dovuto alla pandemia, il consumo di suolo è aumentato del 34%. Dobbiamo anche ricordare che la scomparsa del suolo, importante sink di carbonio, accelera il cambiamento climatico.
I tragici fatti di questi giorni che hanno colpito le Marche hanno riportato l’attenzione sulla crisi climatica in atto e sulla estrema vulnerabilità del nostro territorio, martoriato da decenni di cattiva gestione. Siamo improvvisamente passati dall’emergenza siccità a quella alluvioni. Ma sono due facce della stessa medaglia. Gli oltre 400 millimetri di pioggia caduti su quella regione in poche ore non devono farci dimenticare la siccità peggiore degli ultimi 70 anni. Ma questa altalena tra fenomeni estremi rispecchia la prevista evoluzione del cambiamento climatico nella regione mediterranea che è – e sarà sempre più – interessata da drammatiche ondate di calore alternate a precipitazioni intense, concentrate in breve tempo.
Ma non possiamo dare la colpa di ciò che è successo al solo cambiamento climatico. Negli ultimi anni abbiamo fatto di tutto per costruire una ‘tempesta perfetta’, canalizzando in maniera eccessiva gli alvei fluviali, impermeabilizzando con cemento e asfalto (ovvero "consumando") il suolo a ritmi altissimi. Negli ultimi 50 anni circa 2.000 km2 di aree di esondazione naturali hanno subito varie forme di urbanizzazione con trasformazioni più intense lungo le sponde dei fiumi, dal 3,56% al 25,7%. In ogni regione abbiamo costretto i corsi d’acqua in alvei ristretti e ridotte le zone di esondazione naturale, ormai totalmente insufficienti a contenere le piene. Il consumo di suolo non si è mai fermato, come evidenziato anche dall’ISPRA: entro i 150 metri dai corpi idrici a livello nazionale abbiamo consumato l’8,3% di suolo, un dato salito tra il 2020 e il 2021 dello 0,27%. Solo negli ultimi due anni (tra l’altro caratterizzati da un rallentamento dell’economia dovuto alla pandemia, il consumo di suolo è aumentato del 34%. Dobbiamo anche ricordare che la scomparsa del suolo, importante sink di carbonio, accelera il cambiamento climatico.
Si è detto che una delle cause del disastro è la mancanza di “pulizia dei fiumi”. È vero solo in parte. Il bacino del Misa, piccolo e stretto, è molto sensibile e vulnerabile a questi eventi e, come è accaduto per gran parte del reticolo idrografico minore, non è stato gestito adeguatamente. Ma anche se l’alveo fosse stato pulito la quantità d’acqua rovesciata in così poco tempo su quei territori sarebbe comunque esondata. È importante anche considerare la modalità con cui si realizza la cosiddetta “manutenzione idraulica” dei fiumi: questa è spesso legata al meccanismo perverso della convenienza economica che favorisce principalmente interventi capaci di “autofinanziarsi” attraverso, ad esempio, la vendita del materiale estratto (sabbie o ghiaie) dagli alvei o legna nel caso del taglio degli alberi dalle sponde. Una logica che porta a interventi sbagliati.
La crisi climatica amplifica e mette in evidenza tutti gli errori che abbiamo perpetuato nella gestione del territori: distruzione degli ambienti ripariali, modifiche idrauliche dei corsi d'acqua con aumento della loro capacità erosiva, alterazione dell’equilibrio del trasporto solido portando spesso ad un aumento del rischio idrogeologico e della perdita di importanti servizi ecosistemici. Tornando al fiume Misa, è difficile comprendere come opere previste da decine di anni, come le casse di laminazione, che avrebbero potuto ridurre drasticamente il rischio idrogeologico, con risorse economiche disponibili fin dal 2014, non siano state realizzate. Non è servito l’evento disastroso del 2014 per smuovere le istituzioni. L’area è stata identificata dalla regione Marche a rischio idrogeologico molto elevato (R4) nel Piano di assetto idrogeologico regionale. Eppure parte degli abitati ricadono nelle aree a maggior rischio idrogeologico. Chi ha permesso tutto questo? Altre 11 persone hanno perso la vita e, nonostante le indagini c’è il rischio che anche questa volta non pagherà nessuno e si continuerà a non fare ciò di cui abbiamo bisogno. «Il WWF – sottolinea Andrea Agapito Ludovici, Responsabile Acque WWF Italia – ha invocato più volte la necessità di una regia unitaria in capo alle Autorità di distretto che dovrebbe coordinare, programmare e attuare le azioni prioritarie nel bacino idrografico ed eventualmente esercitare poteri sostitutivi quando gli enti locali si rivelano inefficienti. Al livello nazionale, la politica di adattamento ai cambiamenti climatici, ancora mai avviata realmente, deve promuovere una diffusa rinaturalizzazione capace di ‘liberare’ lo spazio dei fiumi, recuperando gli indispensabili servizi ecosistemici capaci di rispondere ai prolungati periodi di siccità e alle precipitazioni intense. Il Piano Nazionale di adattamento ai Cambiamenti Climatici è fermo dal 2017 e dovrebbe finalmente essere approvato e reso operativo. Infine, dobbiamo dare seguito agli impegni presi in sede internazionale, iniziando ad applicare a pieno le direttive quadro Acque (2000/60/CE) e Alluvioni (2007/60/CE) e la Strategia Europea per la biodiversità che prevede che vengano riqualificati, recuperandone la continuità ecologica, 25.000 km di fiumi in Europa».
Mancanza pulizia dei fiumi
Si è detto che una delle cause del disastro è la mancanza di “pulizia dei fiumi”. È vero solo in parte. Il bacino del Misa, piccolo e stretto, è molto sensibile e vulnerabile a questi eventi e, come è accaduto per gran parte del reticolo idrografico minore, non è stato gestito adeguatamente. Ma anche se l’alveo fosse stato pulito la quantità d’acqua rovesciata in così poco tempo su quei territori sarebbe comunque esondata. È importante anche considerare la modalità con cui si realizza la cosiddetta “manutenzione idraulica” dei fiumi: questa è spesso legata al meccanismo perverso della convenienza economica che favorisce principalmente interventi capaci di “autofinanziarsi” attraverso, ad esempio, la vendita del materiale estratto (sabbie o ghiaie) dagli alvei o legna nel caso del taglio degli alberi dalle sponde. Una logica che porta a interventi sbagliati.
La crisi climatica amplifica e mette in evidenza tutti gli errori che abbiamo perpetuato nella gestione del territori: distruzione degli ambienti ripariali, modifiche idrauliche dei corsi d'acqua con aumento della loro capacità erosiva, alterazione dell’equilibrio del trasporto solido portando spesso ad un aumento del rischio idrogeologico e della perdita di importanti servizi ecosistemici. Tornando al fiume Misa, è difficile comprendere come opere previste da decine di anni, come le casse di laminazione, che avrebbero potuto ridurre drasticamente il rischio idrogeologico, con risorse economiche disponibili fin dal 2014, non siano state realizzate. Non è servito l’evento disastroso del 2014 per smuovere le istituzioni. L’area è stata identificata dalla regione Marche a rischio idrogeologico molto elevato (R4) nel Piano di assetto idrogeologico regionale. Eppure parte degli abitati ricadono nelle aree a maggior rischio idrogeologico. Chi ha permesso tutto questo? Altre 11 persone hanno perso la vita e, nonostante le indagini c’è il rischio che anche questa volta non pagherà nessuno e si continuerà a non fare ciò di cui abbiamo bisogno.
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