Formazione

La scuola più inclusiva del mondo? Ipocrisia

La testimonianza di Maria Grazia Fiore, insegnante e mamma di Jacopo, 16 anni, autistico non verbale: quest'anno ha optato per l'istruzione parentale. «Non è una scelta, è una resa. Ma non si possono fare le battaglie sulla pelle dei nostri figli. Forse ho sacrificato Jacopo ai principi di un sistema inclusivo in cui ho sempre creduto, prima di tutto come insegnante. A questo punto da genitore ho ceduto. Per rispetto di Jacopo e della sua dignità».

di Sara De Carli

«Non è una scelta, è una resa. In questo momento soprattutto è la ricerca di una tregua, perché Jacopo ha perso troppo». Maria Grazia Fiore è la mamma di Jacopo, 16 anni, un ragazzo autistico non verbale. Maria Grazia è anche insegnante: una di quelle super motivate, appassionate, con tanto di master, funzione strumentale e animatore digitale ai tempi del Piano Nazionale Scuola Digitale. Non solo, Maria Grazia è anche una esperta di disabilità: ha redatto e condiviso moltissimi materiali in CAA, la comunicazione aumentativa alternativa, ha tradotto in italiano il sito di Arasaac, che mette a disposizione più di 10mila pittogrammi in 20 lingue diverse, è nel team della Cei che lavora sull’inclusione e la partecipazione attiva nella chiesa delle persone con disabilità. È una che all’inclusione ci crede. Che alla scuola inclusiva ci crede. E invece quest’anno per suo figlio ha dovuto arrendersi a una realtà diversa, l’istruzione parentale.

«Andando contro ogni principio di buon senso e di inclusione sociale, quest'anno Jacopo resterà a casa invece che andare a scuola. Ci siamo arresi alla scuola parentale. È una sconfitta del sistema, prima ancora che nostra, ma sempre sconfitta è. Tenerlo a casa per proteggerlo dalla scuola, con molta, molta amarezza, ma ci siamo giocati pezzi di salute e di benessere psichico troppo importanti in questi anni. Brindiamo idealmente al sistema scolastico inclusivo "più bello del mondo": noi ci siamo arresi. In bocca al lupo a chi resiste»: questo il testo del suo post su Facebook, nei giorni scorsi. Non che il percorso scolastico di Jacopo sia stato sempre rose e fiori – «È una vita che formo insegnanti di sostegno e educatrici di Jacopo, che troppo spesso arrivano senza sapere nulla di autismo e che cambiano ogni anno», racconta – ma lo scorso anno, il primo alla secondaria di secondo grado, è stata «una deflagrazione».

Resa e non scelta, la prima sottolineatura che per Maria Grazia è fondamentale fare è proprio questa: «Come genitore e come docente mai e poi mai avrei fatto questa scelta. Sono mortificata come madre e come insegnante. So benissimo che tenere Jacopo a casa per un anno – auspicabilmente sarà solo per un anno – significa privarlo dell’unico periodo della sua vita in cui ha garantita un minimo di socialità. Non nascondiamoci le cose, per un autistico non verbale la realtà è questa: c’è un minimo di socialità finché c’è la scuola. Nelle scelte c’è qualcuno che vince, quando va bene addirittura si vince entrambi: qui invece perdiamo tutti, questo mi è chiaro e deve essere chiaro. Ci perde Jacopo, ci perdiamo noi genitori, ci perde la scuola, ci perdono i compagni. Però è pur vero che l’anno scorso Jacopo lo ha passato tutto nell’aula di sostegno da solo, tendenzialmente davanti a un tablet, con tutti i comportamenti-problema che ne sono derivati: perché Jacopo è consapevole di cosa sia la scuola e della differenza che fa stare in classe e stare da solo nell’aula di sostegno. Figuriamoci che all’inizio hanno utilizzato i simboli di CAA per scrivere “Aula di Jacopo”… Ovviamente l’ho fatto immediatamente togliere», racconta Maria Grazia.

Come genitore e come docente mai e poi mai avrei fatto questa scelta. Sono mortificata come madre e come insegnante. So benissimo che tenere Jacopo a casa per un anno – auspicabilmente sarà solo per un anno – significa privarlo dell’unico periodo della sua vita in cui ha garantita un minimo di socialità. Non nascondiamoci le cose, per un autistico non verbale la realtà è questa: c’è un minimo di socialità finché c’è la scuola. Nelle scelte c’è qualcuno che vince, quando va bene addirittura si vince entrambi: qui invece perdiamo tutti, questo deve essere chiaro. Ci perde Jacopo, ci perdiamo noi genitori, ci perde la scuola, ci perdono i compagni. Non è una scelta, è una resa

Maria Grazia Fiore


Un anno partito tutto in salita, «che ha visto sprazzi di luce e di inclusione solo quando abbiamo mandato l’educatrice domiciliare a scuola ad affiancare gli insegnanti e gli educatori che si sono alternati, dimostrando come Jacopo poteva stare in classe come gli altri a lavorare, senza turbare il lavoro dei curricolari… Ma è stato tutto inutile. Andata via lei, Jacopo è tornato nell’aula di sostegno. Tutto sprecato: tempo, soldi, energie, speranze… Non ho più memoria di quante docenti siano cambiate in questi anni: anche due nello stesso anno scolastico. Il sostegno funziona ormai così perché la domanda supera l’offerta: c’è chi rifiuta i casi impegnativi, c’è chi è specializzato ma non ha idea di come comunicare con una persona non verbale, c’è chi rivendica il proprio diritto all’incompetenza perché “io non sono un’insegnante di sostegno”». E poi le chiamate dalla scuola per andare a prendere Jacopo, quando l’insegnante di sostegno e l’educatrice non riuscivano a gestirlo: «Ti chiamano in qualsiasi momento, anche se stai lavorando, perché il genitore del figlio con disabilità deve sempre essere a disposizione della scuola. Alla fine il solo pensiero di Jacopo a scuola faceva star male tutti, lui e noi. Una tortura». Una nuova scuola, per questo anno scolastico, la famiglia l’aveva anche trovata: ma a fine luglio la nuova dirigente ha deciso di fare dietrofront e a quel punto era davvero troppo tardi per trovare un’alternativa sensata.

«La verità è che l’inclusione, soprattutto alla scuola secondaria di secondo grado, non c’è. Per loro è assurdo che il docente curricolare vada al GLO. La scuola specula sui disabili: sono fonte di posti di lavoro, fanno comodo quando ci sono classi troppo piccole che rischiano di non formarsi, per poi convincere le famiglie a tenerli casa», denuncia Maria Grazia. «Io so che non è così dappertutto, sono l’ultima a “sparare nel mucchio”: ci sono tantissime colleghe che ci credono e che lavorano tanto e bene, ma l’inclusione scolastica man mano che sali di ordine, scompare. La scuola primaria ha un occhio diverso o almeno prova ad averlo, pur essendo cambiate tante cose anche in questo grado di istruzione. E in questo momento, sembra un paradosso, anche l’università è più inclusiva della secondaria di secondo grado. Io posso anche cambiare città, decidere di sradicare la mia famiglia, non escludo che lo faremo, ma ovunque andremo sarà una roulette russa, questo non è accettabile. L’inclusione non può essere un terno al lotto. Non credere più alla scuola come istituzione per me è indicibile. Io tornerò a chiedere: “trovatemi voi una scuola che sappia cos’è l’autismo” e Jacopo ce lo porto domani mattina».

La verità è che l’inclusione, man mano che sali di ordine, scompare. In questo momento, sembra un paradosso, l’università è più inclusiva della secondaria di secondo grado. Io potrei anche cambiare città, decidere di sradicare la mia famiglia, ma ovunque andremo sarà una roulette russa, questo non è accettabile. L’inclusione non può essere un terno al lotto.

Maria Grazia quest’anno non sarà in classe, si è presa un anno sabbatico. Naturalmente non sarà lei l’insegnante di Jacopo, perché è sano mantenere ruoli distinti. «Però devo organizzare qualcosa che a questo momento sta a zero. Non si tratta tanto di redigere un Pei, ne posso scrivere uno bellissimo, o produrre materiali… Si tratta soprattutto di costruire occasioni di socialità per Jacopo, nel deserto dei tartari. Socializzazione che giocoforza sarà in un contesto di cooperativa, con altri ragazzi con disabilità… non è inclusione, sono gruppetti esclusivi. La prima cosa è organizzare una routine, per Jacopo è importante, lui sa che quando torniamo dalla campagna comincia la scuola, la mattina in questi giorni prende la cartella. Verosimilmente starà alcuni giorni a casa e alcuni giorni in un’associazione, dovremo cercare due persone diverse, una che si occupi più del percorso didattico e l’altra di quello educativo, affrontando – elemento non trascurabile – spese ingenti. Ma qualche cosa di buono me la inventerò, come ho sempre fatto».

Quello che a Maria Grazia fa più male è la distanza tra la norma e la realtà, quella che chiama «l’ipocrisia del sistema inclusivo più bello del mondo». «Basta così, grazie. Lo Stato non può far finta di non vedere che il canale del sostegno viene utilizzato soprattutto come una scorciatoia per entrare nella scuola, con maglie sempre più larghe, sempre più spesso non specializzati o, anche quando hanno il titolo, non adeguatamente preparati. Anche qui, ovvio, non tutte le università sono uguali. Forse a questo punto è meglio guardarci negli occhi e dire che l’inclusione non è possibile per tutti. Forse a questo punto, meglio una scuola speciale fatta bene».

Basta così, grazie. Lo Stato non può far finta di non vedere che il canale del sostegno viene utilizzato soprattutto come una scorciatoia per entrare nella scuola, con maglie sempre più larghe, sempre più spesso con docenti non specializzati o che, anche quando hanno il titolo, non sono adeguatamente preparati. Forse a questo punto è meglio guardarci negli occhi e dire che l’inclusione non è possibile per tutti. Forse a questo punto, meglio una scuola speciale fatta bene

L’altra pugnalata è stata il vedere le istituzioni «fare fronte comune contro la famiglia. In tanti anni non ho mai cercato per Jacopo nulla di diverso dalla normalità, perché ho sempre creduto in un diritto che deve valere per tutti. Qualsiasi favore chiedi per tuo figlio, hai dato una picconata alla norma, che deve esser uguale per tutti. Io credo nel principio della legge, ma adesso il principio della legge sta vacillando. Anzi, credo che nella legge più bella del mondo non ci creda più nessuno in realtà: Durkheim diceva che non è il timore della punizione che spinge ad obbedire a una legge, ma il fatto di crederci. Se le persone smettono di crederci, anche la legge più bella diventa vuota. Partendo da Jacopo, mi sono sempre occupata anche degli altri, so di essere parte di una comunità molto più grande, ho lavorato per la creazione di una cultura condivisa. È una vergogna che i percorsi psico-educativi per gli autistici siano un lusso, che ci siano Asl che non prescrivano o neghino strumenti di CAA (noi siamo tra quelli), che si debba pagare il diritto alla comunicazione con i simboli, non è giusto che per “permetterti il lusso di essere autistico” si debba nascere in una famiglia acculturata e benestante… Però non si possono fare battaglie sulla pelle dei nostri figli. Forse ho sacrificato Jacopo ai principi indiscutibili di un sistema inclusivo in cui ho sempre creduto, prima di tutto come insegnante. A questo punto da genitori abbiamo ceduto. Per rispetto di Jacopo e della sua dignità: il titolo è questo».

In foto, Maria Grazia in classe con Jacopo, in prima primaria

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