Cultura

Il vescovo che dà lavoro anche ai figli dei boss

«La legalità è solo la cornice, il contenuto deve essere la socialità e il lavoro», dice Monsignor Brigantini che aiuta i giovani con concrete opportunità di impiego.

di Giampaolo Cerri

Alla fine ha capitolato anche la burocrazia. La cooperativa Agrisole di Platì ha ricevuto dalla prefettura di Reggio Calabria il certificato antimafia che aveva richiesto da tempo. I suoi giovani soci potranno accedere ai fondi europei, alle facilitazioni di legge, potranno raccogliere i frutti di bosco dell’Aspromonte, venderli, commercializzarli. Provare a ribellarsi alla morsa della miseria, e della disoccupazione, del fatalismo e alla logica mafiosa in base alla quale solo le famiglie (nel senso dei clan) possono dare lavoro. Loro che gli uffici del “Signor Prefetto”, il rappresentante di Roma, bollavano come mafiosi. D’altra parte, fra Platì e Gioiosa, fra Siderno e Gerace, chi poteva dire non essere imparentato, magari alla lontana, con qualche uomo delle cosche? Come in una commedia pirandelliana, la logica “sportellizia” dei certificati, dei controlli, dei registri, condannava questi figli, nipoti, cugini di uomini della n’drangheta a non avere speranze per il futuro. «La legge è la legge», ripetevano gli impiegati allargando le braccia, opponendo la più disarmante delle tautologie. «Mostri amministrativi», spiega Vincenzo Linarello, direttore di “Crea Lavoro”, il progetto della Diocesi di Locri che in un anno ha creato 180 opportunità imprenditoriali usando i fondi europei per l’occupazione. «C’è un controllo burocratico terribile, opprimente:l’importante è che “le carte siano a posto”. Peccato che non ci sia poi nessun controllo sull’efficacia della spesa». Il paradosso spiegato al sottosegretario Una situazione paradossale che quelli di “Crea Lavoro” hanno spiegato anche al sottosegretario Marco Minnitti, calabrese,dalemiano doc, arrivato ad un convegno sull’imprenditoria giovanile. Un’impasse per la quale anche monsignor Giancarlo Bregantini si è mosso con la decisione (ed il garbo) che gli sono propri. Lui, trentino della Val di Non, sceso a Locri nel ’94 per fare il vescovo di una terra difficile, dilaniata da faide sanguinose, popolata da formazioni malavitose e attanagliata da una povertà da record. Bregantini, che sarà pure uno stimmatino ma ha lavorato in fonderia a Verona e al Petrolchimico di Marghera, ha spiegato al prefetto, a Minnitti e a chiunque avesse il potere di sciogliere quell’assurdo amministrativo (o filosofico?, ndr), che bloccare il progetto di Agrisole avrebbe significato condannare ancora una volta i giovani della Locride al fatalismo, rendendo certezza in loro ciò che, da quelle parti, anche i muri sembrano dire: “Niente può cambiare”. Monsignor Giancarlo Bregantini ha la dolcezza e la determinazione per farsi capire: dai calabresi che lo amano, dai giovani che lo seguono, dalle autorità che lo rispettano, dai mafiosi che lo temono. La sua esperienza pastorale è sempre stata spesa fra i più bisognosi, dai reclusi del carcere di Crotone, agli alunni della scuola serale della Val d’Illasi nel Veronese, a cui insegnava storia negli anni ’70. In questi giorni gira la Locride per la visita pastorale. Di parrocchia in parrocchia, di comunità in comunità. Arriva incontra, ascolta tutti. Si intrattiene con gli anziani, con i giovani, con gli amministratori. Spesso resta a dormire nelle canoniche, per sfruttare ogni minuto della giornata. Il suo arrivo nella diocesi di Locri-Gerace ha coinciso con la ripresa della speranza. «La legalità è la cornice; ma è la socialità il vero contenuto del quadro», ci dice. Molti giovani l’hanno seguito da subito. Vincenzo Linarello è uno di questi. Fresco di laurea in psicologia alla Sapienza e fondatore di una struttura per il recupero dei disabili a Gioiosa Jonica, la Comunità di Liberazione. «Il vescovo ha subito posto l’accento sulla disocuppazione giovanile e ci ha chiesto di realizzare un rilevamento statistico», ricorda Linarello, «con risultati disarmanti: il 70% dei giovani delle nostre terre non aveva mai lavorato». Un fattore potente di emarginazione sociale: «Certo, e come lo vogliamo chiamare un problema che impedisce a due giovani di sposarsi, di progettare la propria vita, di poter mettere al mondo dei figli», commenta. Terreno fertile, ovviamente, per le cosche, le bande, l’illegalità. «Con la fine di un certo sistema assistenzialistico» spiegano quelli della comunità calabrese, «la situazione si è fatta più drammatica». È così che il presule ed i giovani cominciano a progettare occasioni di lavoro. «Il male della Calabria non è la mafia» dice il vescovo, «ma il destino, la mentalità del fatalismo, che paralizza sul nascere ogni tentativo di cambiamento». Perciò decidono di partire da Platì, fondando, nel ’98 una cooperativa agricola, la “Valle di Bonamico”. Immaginarsi: a Platì, legata da sempre al mito aspromontano dell’anonima sequestri. «Poteva essere il segnale di una ripresa possibile», ricorda oggi Linarello, «se un’idea del genere poteva realizzarsi a Platì, sarebbe stato possibile ovunque». Sostegno dalle cooperative trentine Il vescovo coinvolge la Federazione Trentina delle Cooperative per fornire il know-how necessario; insieme i giovani calabresi e gli agricoltori delle valli dolomitiche scoprono che sull’Aspromonte c’è un microclima che rende possibile la coltivazione dei frutti di bosco ben oltre la loro stagione estiva. «A questa latitudine siamo l’unica area del Mediterraneo insieme ad alcune zone dell’Andalusia dove è possibile coltivare lamponi e mirtilli anche a novembre». Un’impresa sociale che riesce subito a stare sul mercato, esportando in tutt’Europa, a produrre ricchezza, a dare lavoro. Ma non bastava: doveva scattare il contagio vitale su tutto il territorio. «Le leggi sull’imprenditoria giovanile potevano essere lo strumento», ricordano quelli della Comunità di Liberazione, «ma di iniziative nemmeno l’ombra». Dall’episcopio sempre brulicante di gente, monsignor Bregantini convince i suoi giovani ad aprire uno sportello, qualcosa che sappia accompagnare la gente ad inventarsi il lavoro, sfruttando ogni minimo incentivo di legge. «Non basta informare», ripete ai suoi collaboratori, «bisogna aiutare ad utilizzare l’informazione, a formare i requisiti di base dell’imprenditorialità, per tutti». Nasce “Crea Lavoro”, un progetto che prende per mano i giovani con la volontà di mettersi in proprio, seguendoli finché le loro aziende non saranno in grado di camminare con le loro gambe. Dall’ascolto dei problemi ai progetti «Ci siamo messi in ascolto», ricorda Linarello che di “Crea Lavoro” è diventato il direttore, «bisogni, proteste, desideri, difficoltà. Poi, insieme, a fare progetti, a vagliare possibilità». I progetti si trasformano presto in 14 cooperative di servizi di cui 4 di tipo B, in decine di ditte individuali nell’agricoltura, nell’artigianato, nel turismo, nel terziario. In tutto 457 persone, 96 delle quali hanno potuto accedere ai prestiti d’onore della legge 608/96. Lo sportello si è trasformato in un centro di diffusione della cultura del lavoro: organizza seminari, attività formative, ricerche (“Cooperazione e problematiche di sviluppo”, “Atteggiamenti dei giovani nei confronti di lavoro”). Nasce una banca dati sui servizi gratuiti all’impresa e una Banca del Tempo. «Presto ci sarà anche un Consorzio di garanzia fidi» , spiega Linarello, «perché uno dei problemi più critici nella Locride è l’accesso al credito da parte di giovani senza garanzie patrimoniali». Così chiese locali con Banca etica, Cooperfidi (Trentino), la Cassa di Risparmio della Calabria realizzeranno un fondo di sostegno delle imprese che con 100 milioni di capitale, garantirà fino a 2 miliardi, concedendo piccoli fidi di 50 milioni ciascuno ad iniziative capaci di creare impresa, soprattutto fra i soggetti svantaggiati. «Nel nostro piccolo abbiamo creato un metodo che ha funzionato», dicono i giovani di “Crea Lavoro”, « perché non usarlo in altre realtà del Mezzogiorno?». E rincarano la dose: «A volte c’è spreco di danaro per interventi e strutture incapaci di creare sviluppo», dice, «è importante che questo progetto non rimanga una bella esperienza di un’associazione di solidarietà sociale e di un vescovo del Sud». Intanto da varie parti del Meridione, specialmente dalla Sicilia e della Puglia, sono in moltissimi a voler “importare” il progetto della Locride. «L’endemica mancanza di lavoro rischia di innescare un’esplosione di violenza irrazionale e incontrollabile», aveva ammonito il vescovo di Locri un paio di anni fa. Tanto convinto da impegnare la sua chiesa in quest’azione di riscatto della terra che gli è stata affidata. «Ognuno di noi è terra», commenta monsignor Bregantini, «l’essere terra mi restituisce il gusto di essere stato impastato dalle mani stesse di Dio, che ha trasformato la polvere e l’argilla in un corpo nuovo, spirito vivente . Guardo allora a queste mani divine, che hanno fatto bello il nostro corpo, la terra di Calabria o del Trentino, ogni terra pensata “non come orrida regione, ma perché fosse abitata”, lavorata dalle nostre mani». Prosegue il vescovo di Locri: «Così nasce un intreccio favoloso tra le mani di Dio e le nostre mani. Le mani di Dio l’hanno plasmata, alle nostre mani è affidata: mani di artista o di artigiano, mani di contadino o di chirurgo, mani di sarto o di maestra, di samaritano o di operaio».


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