Cultura

L’artista che celebra le periferie come luoghi di incontro

Edoardo Tresoldi, inserito da Forbes nel 2017 tra gli under 30 più influenti al mondo, ha raccontato a VITA, in occasione dell'istallazione della sua opera site specific Hora a Modena al parco XXII Aprile, «il lavoro sul confine è il mio campo d’azione. Al di là di un’attrazione personale rispetto a una dimensione di limite e di confine, c’è molto di questo periodo storico e della nostra generazione». L'intervista

di Laura Solieri

La periferia come luogo metamorfico e duttile in grado di accogliere nuove concezioni mentali, culture, contaminazioni e l’arte che porta un gesto di meraviglia nella quotidianità delle persone costruendo ponti, momenti, sguardi, uno stare bene diffuso. Ne parliamo con l’artista Edoardo Tresoldi, inserito da Forbes nel 2017 tra gli under 30 più influenti al mondo, che incontriamo a Modena al parco XXII Aprile durante l’installazione dell’opera site specific Hora, di prossima inaugurazione, frutto del lavoro congiunto di Tresoldi e di quattro borsisti del G124 di Renzo Piano nell’ambito del workshop TRAC – Tresoldi Academy #1 “Periferie”, sostenuto da Urban Up-Unipol. Hora, come tante altre opere di Tresoldi, dialoga con gli elementi naturali del luogo permettendo loro di disegnarne i lineamenti formali e ornamentali nel corso del tempo. L’intervento nasce dalla volontà di celebrare la vita quotidiana del parco e del quartiere Crocetta, in cui anche una semplice seduta può diventare presupposto di incontro. L’installazione dell’opera è il secondo atto del progetto per il parco XXII Aprile sviluppato dal gruppo di giovani architetti coordinati da Matteo Agnoletto con il dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna, che ha risposto all’invito di Renzo Piano per prendersi cura dei luoghi periferici.


In ambito sociale, si parla sempre dell’importanza di fare rete; nella tua arte, caratterizzata da una spiccata dimensione anche sociale, lavori e crei con la rete metallica. Quali analogie e collegamenti ritrovi in ciò?
C’è un’analogia esatta tra il concetto non esatto di fare un lavoro sociale facendo solo rete e pensare che il mio lavoro sia solo legato alla rete. Essa è il mezzo attraverso cui riesco a lavorare con le trasparenze, con cui costruire connessioni emotive e, allo stesso modo, penso che nel lavoro sociale non si debba pensare che basti creare dei collegamenti, fare rete. Quello che cerco di fare io è costruire dei luoghi che abbiano un potenziale emotivo personale, intimo, quindi automaticamente in grado di regalare un’intimità collettiva. Solo allora siamo difronte a un discorso emozionale e riusciamo a cucire le parti differenti di una comunità, dove alla fine le persone non per forza sono collegate ma si sentono appartenenti ad uno stesso sentimento, provato assieme. Anche in una cosa semplice come l’opera che stiamo allestendo qui a Modena, si cerca di intercettare una serie di poetiche che un luogo come questo ha, per dare la possibilità alla comunità di condividere un sentimento.

Qual è il tuo rapporto con l’arte partecipata?
In molte mie opere, soprattutto quelle più grandi, passo obbligatoriamente e volutamente tanto tempo nel posto in cui costruisco, vivo la città, il quartiere, a fine lavoro vado nei bar, conosco la gente del posto e si crea un collegamento legato a un momento in cui si condivide lo stesso spazio. Molto spesso, è capitato che le persone si rendano disponibili per fare cose insieme, per aiutarci, e a fine cantiere magari si fa una grigliata insieme. Non per forza, quindi, il cantiere coinvolge progettualmente le persone del posto ma si creano comunque legami naturali. Il mio modo di approcciarmi a un dato luogo non è mai legato all’idea che arrivo io e chissà cosa succede, che arrivo io e alzo la qualità del posto… Niente affatto. Semplicemente vado e cerco di interagire con le persone attraverso quello che so fare.

La trasparenza è la chiave della tua arte che si relaziona costantemente con il concetto di confine e di perimetro, temi particolarmente caldi in questo periodo storico, dal confine che delimita le distanze imposte dalla pandemia al confine geografico che ci fa pensare subito al fenomeno migratorio. Cosa rappresenta esso per te?
C’è una precisa consistenza del confine: la fisicità della trasparenza e della rete metallica permette di considerare la linea di confine sia come limite che come collegamento, come ponte. Il mio lavoro è una sorta di ossimoro di quello che è, crea un muro che poi accoglie quello che c’è dietro. Il lavoro sul confine è il mio campo d’azione. Al di là di un’attrazione personale rispetto a una dimensione di limite e di confine, c’è molto di questo periodo storico e della nostra generazione. Sento che non è più coerente con il tempo che stiamo vivendo dover per forza definire dei punti attorno ai quali ruotano delle cose ma è molto affascinante e divertente indagare tutto lo spazio che c’è tra la luce e l’ombra, tra una cultura e un’altra, tra le contaminazioni che avvengono in un punto di incontro. Vengo da un territorio che è un punto di incontro tra quella che era la società contadina e l’esplodere della civiltà urbana di una città come Milano, quindi l’hinterland, che di per sé è un luogo di confine e contaminazione dove nascono una serie di valori dinamici, centro della mia ricerca. La periferia, come l’hinterland, ha la fortuna di poter essere un luogo dinamico; se pensiamo ai centri di città, soprattutto le città iconiche italiane, essi vivono una dimensione molto più limitata legata al dover per forza raccontare ed essere la retorica che hanno sempre portato avanti. È molto più difficile rivoluzionare un centro storico che una periferia perché la rivoluzione è parte integrante della periferia.

Quale responsabilità senti, se responsabilità è la parola giusta, verso questo presente storico, come giovane e come artista?
Ho una forte etica morale e professionale riguardo a quello che faccio. Ci tengo molto a dare una dignità importante a ciò che propongo, principalmente perché lo faccio nello spazio pubblico, che sia un luogo urbano o un paesaggio comunque lavoro sempre in un luogo che è di tante altre persone. Questa dimensione mi mette nelle condizioni di costruire nel tempo un’etica di approccio per cui rispondo di una dignità dell’opera. È importante che una cosa venga detta con un certo carattere per costruire un dialogo, non per affermare delle cose. Siamo il frutto del nostro tempo, pandemia compresa, e di quello che siamo ed essere onesti è la cosa più bella e responsabile che possiamo fare, costruire relazioni oneste è ciò a cui dobbiamo tendere.

Hai delle paure?
Sono pieno di paure, di insicurezze che però sono la bussola con cui continuo a vivere la mia vita. La ricerca della felicità, sicurezza, tranquillità eterne è una sorta di anestesia ma è ciò che ci spaventa, come quello che amiamo, a determinare la nostra relazione con le cose che abbiamo intorno. Il mondo reale, quello praticato, è fatto di questioni tecniche, pensate, corrette, coerenti che appartengono al giusto, al dover fare le cose. L’arte, come la poesia, è quella cosa per cui ci rendiamo conto che tutto ciò che è giusto e corretto alla fine nella dimensione poetica e artistica riesce a essere sbagliato e meraviglioso. Poter portare anche solo un piccolo gesto poetico nella quotidianità delle persone vuole dire costruire ponti, momenti, sguardi, scene di meraviglia: abbiamo bisogno di questa sensazione endorfinica dello stare bene. Quando ti innamori di una persona, la guardi ed è un estremo momento di meraviglia. Quella cosa è completamente soggettiva, la bellezza e la meraviglia che vedi in quella scena è totalmente relativa, come l’arte, come la poesia. Noi quella relatività, quel bello soggettivo personale lo dobbiamo condividere. Se tutti cercassero di condividere alcune proprie meraviglie si creerebbero momenti di amore in grado di illuminare in maniera totalizzante. Lavorare a un’installazione, a un’opera è ricercare in qualche modo l’impalpabile del sentimento; non c’è un calcolo o un’equazione secondo cui quella cosa funziona o meno. Mi piace lavorare con la trasparenza perché se capita un giorno di pioggia quella roba sembra spenta, non dice niente, ma basta un raggio di sole, una sfumatura per sentirne tutta la fragilità. Mettere in connessione le persone con la fragilità occupa così tanto poco tempo e tanta soggettività che fa sentire tutto relativo. Il mio lavoro è quella roba lì, il peso di questa leggerezza incredibile.

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