Cultura

Il bello del nichilismo: dalla perdita di valori all’emergere di un bisogno irriducibile

Sembrava dominare la cultura contemporanea, invece il nichilismo è riesploso come tema e come problema in forme diverse. Riaprendo nuove possibilità alla ricerca di senso. Un saggio di Costantino Esposito affronta la questione dal punto di vista filosofico, con un approccio lucido e inedito

di Doriano Zurlo

È un bel libro quello che Costantino Esposito, ordinario di Storia della filosofia e di Storia della metafisica all’Università di Bari Aldo Moro, ha consegnato alla stampa per i tipi di Carocci editore. Si intitola Il nichilismo del nostro tempo. È breve, di agile lettura e di profonde intuizioni.

L’autore, nella premessa, rivela senza troppi giri di parole l’ipotesi che sostiene il suo lavoro: «Dopo essere esploso in forma titanica e iconoclasta con Nietzsche nel passaggio tra il XIX e il XX secolo, ed essersi trasformato poi, a poco a poco durante il Novecento, da “patologia” in “fisiologia” della cultura dominante delle società dell’Occidente avanzato (e da qui, come tendenza, in molte parti del mondo), il nichilismo sembrava aver completamente vinto, e quindi non costituire più un “problema”, quanto piuttosto una condizione ovvia e condivisa globalmente. E invece, ad osservare meglio la scena, a me sembrava che proprio in questi ultimi anni il nichilismo fosse tornato a essere una questione aperta, perché le domande che esso, grazie alla sua critica degli idoli, aveva dichiarato ormai impossibili – come la domanda sul senso ultimo di sé e della realtà, sulla verità dell’io e della storia, sul nostro rapporto con l’infinito ecc. – tornavano a essere possibili, ragionevoli, brucianti».

Il nichilismo che frantuma gli idoli (della conoscenza, del progresso, della metafisica, della morale, dell’ordine) e in un certo senso ci consegna al dominio della Tecnica quale ultimo orizzonte, nell’idea di Esposito non sembra più consistere «come nella sua forma classica, in una perdita di valori e ideali, ma piuttosto nell’emergere di un bisogno irriducibile. Ci sono meno protezioni ideologiche: il bisogno è più nudo, e quindi molto più impegnativo. Non ha più copertura: perciò il nichilismo del nostro tempo può essere paradossalmente una chance per la ricerca di un significato vero per la nostra esperienza nel mondo».

Il libro è strutturato in diciotto brevi capitoli, dieci dei quali sono l’ampliamento di una serie di articoli scritti dal filosofo per L’Osservatore Romano durante la prima ondata della pandemia di Covid-19. Proprio l’evento sanitario che ci ha segnati indelebilmente qui si attesta quale estremo punto di rottura di un sentire esistenziale già prostrato.

Questo sentire però, anche nell’ovvietà (a volte indotta) con cui si istituisce in noi quale verità incontrovertibile, sempre in moto ostinato e contrario cerca il suo punto di fuga: «L’angoscia che ci ha segnato nei giorni della pandemia da Covid-19 sta portando a galla, in tutta evidenza, la trama nichilistica che segna da cima a fondo il nostro modo di concepire noi stessi e la realtà. Ma dall’altro lato ha mostrato di colpo, con altrettanta evidenza, che il nichilismo non è forse più all’altezza della crisi che stiamo vivendo nel nostro tempo. Sono proprio le domande che nascono dall’angosciante emergenza sanitaria a mostrare che l’assetto nichilistico della vita e della cultura, della politica e della società, sta come frantumandosi per implosione». E ancora: «Il cerchio si spezza e rinascono gli interrogativi. E non rinascono per forza di analisi – questa è la svolta culturale – se è vero che molte volte il surplus di analisi rischia paradossalmente di mettere a tacere le domande più importanti e di mancare il punto decisivo della situazione. Perché il punto siamo noi stessi e gli interrogativi rinascono come la “forma” propria del nostro essere nel mondo. L’impressione è che qualcosa stia cedendo, e che noi ci scopriamo incapaci di sostenere con le categorie abituali l’urto di una realtà imprevedibile: un virus patogeno che non si lascia afferrare, ma che piuttosto ci afferra e ci “tiene” drammaticamente, dilatando l’idea del contagio dall’infezione alla più generale sospensione della normalità della vita. Ma ciò che in fondo continua a essere imprevedibile e incontrollabile – pur attraverso tutte le doverose strategie di contenimento – è il nostro stesso esistere. Questo tempo di pandemia non ci costringe solo a fare i conti con i nuovi, drammatici problemi della nostra esistenza individuale e sociale, ma a comprendere – vivendolo – che la nostra stessa esistenza ‘è’ un problema radicale che cerca una risposta adeguata. Il problema della felicità, ossia l’interrogativo sull’assurdità o la sensatezza del nostro essere al mondo».

Da questa prospettiva – è parere di chi scrive, ma credo che Esposito sarebbe d’accordo – anche il perpetuarsi dell’ideologia nella forma che ha assunto oggi, cioè quella di essere pro o contro qualcosa e di esprimerlo violentemente sui social, mostra più che mai il suo limite.

Ill nichilismo del nostro tempo può essere paradossalmente una chance per la ricerca di un significato vero per la nostra esperienza nel mondo

Costantino Esposito

Prendiamo per esempio il negazionismo estremo: il Covid non esiste e chi ci crede è un covidiota. Non è questa una strategia di fuga, di occultamento ideologico o di riduzione delle domande incessanti che la realtà suscita? Ciò che sostiene l’irragionevolezza di certe posizioni, che risolvono l’esistenza personale nell’epifania di un grande complotto che gli illuminati vedono e i più no, è il rintracciamento di un senso esteriore, in grado di sedare quell’interrogativo “sull’assurdità o la sensatezza del nostro essere al mondo” che evidentemente lascia dormire sonni meno tranquilli della "rassicurante" certezza che tutto sia in mano a un complotto pluto-giudaico-massonico.

Ma attenzione. All’estremo opposto c’è una fiducia ottusa nella scienza e nella tecnica quale panacea di tutti i mali. Gli estremi, che assumono la forma dei nostri estremismi da tastiera, come sempre si toccano.

Qui, sia chiaro, siamo a favore dei vaccini per sconfiggere la pandemia, e anche a favore della sospensione della loro proprietà intellettuale per favorirne la diffusione più capillare ovunque, come chiesto da papa Francesco; ma questo aspetto ‘tecnico’ della questione non risolverà il problema esistenziale che la stessa questione solleva. E ripetere ossessivamente a chi reitera obiezioni e ci chiama “covidioti” che è solo un ignorante perché non si fida della scienza, attestarsi cioè su un versante ideologico opposto e speculare all’altro, senza mai lambire l’esigenza di senso che tutto questo presuppone, rivela il medesimo carattere di fuga dalle domande fondamentali che è espresso dalla posizione avversa. No-vax e pro-vax, in questo senso, quando irrigiditi su posizioni estreme, sono figli dello stesso terrore esistenziale. E il volto del nichilismo che si rivela nell’ideologia scientista è quello che, come scrive Esposito, «si occupa esclusivamente di misurare e gestire ‘tecnicamente’ la realtà, privandosi e privandola dell’assillo di un significato ultimo di sé e del mondo».

Naturalmente non è sufficiente rivendicare in modo generico le “ragioni del cuore” contro le imposizioni della scienza e della tecnica. Il discorso scivolerebbe nel sentimentale e confermerebbe il paradigma che combatte, quello per cui da una parte esiste l’oggettività cruda della realtà – sulla quale solo il discorso scientifico ha presa – e dall’altra, in una separatezza senza rimedio, la soggettività interiore, preda di sensazioni, personalismi e inquietudini che nulla hanno di oggettivo e che vanno risolti su un piano puramente psicologico.

Il punto siamo noi stessi e gli interrogativi rinascono come la “forma” propria del nostro essere nel mondo. L’impressione è che qualcosa stia cedendo, e che noi ci scopriamo incapaci di sostenere con le categorie abituali l’urto di una realtà imprevedibile

Costantino Esposito

Esposito dunque non si sottrae al confronto con il "naturalismo biologico" di Daniel C. Dennett, che classifica come ‘illusioni della coscienza’ le domande esistenziali e la stessa percezione di un “mistero” nel tessuto della realtà. Né evita di dialogare con John R. Searle, per il quale «la coscienza fa parte della nostra natura biologica, tanto quanto la digestione, la secrezione della bile, la mitosi o la meiosi». A questi campioni del riduzionismo – a queste più dotte strategie di fuga, potremmo dire – Esposito risponde con la più icastica delle evidenze: anche dopo aver classificato il bisogno di senso come ‘prodotto’ biologico (e sorvolando semmai sull’arbitrarietà scientifica di tale affermazione) il bisogno permane e, discreto o lacerante, chiede una risposta.

Compagni di viaggio dell’autore, in Il nichilismo del nostro tempo, sono Kant e Heidegger, e poi Nietzsche, Husserl, Hume, Agostino, Wittgenstein. Di quest’ultimo, Esposito ricorda un pensiero del Tractatus: «Non come il mondo è, è il mistico [cioè il mistero, nda], ma che esso è».

Non mancano i riferimenti alla letteratura, sia in forma scritta che in forma cinematografica. Da Cormac McCarthy, passando per Michel Houellebecq, attraversando un pezzo di sceneggiatura della serie TV True Detective, fino al David Foster Wallace di Questa è l’acqua, che ci ricorda, con l’esempio memorabile della fila al supermercato, come sia sempre possibile scegliere un modo diverso di guardare le cose: «Finalmente arrivate in fondo a questa fila, pagate per il vostro cibo, e vi viene detto ‘buona giornata’ con una voce che è proprio la voce dell’oltretomba. Quindi dovete portare quelle orrende, sottili buste di plastica del supermercato nel vostro carrello con una ruota impazzita che spinge in modo esasperante verso sinistra, di nuovo attraverso il parcheggio affollato, pieno di buche e di rifiuti, e guidare verso casa di nuovo attraverso il traffico dell’ora di punta, lento, intenso, pieno di SUV, ecc».

È tutto qui? No. Puoi scegliere di «considerare la possibilità che tutti gli altri nella fila alla cassa del supermercato siano stanchi e frustrati come lo sono io, e che alcune di queste persone probabilmente abbiano una vita molto più dura, noiosa e dolorosa della mia» – puoi scegliere «di guardare in un altro modo a questa grassa signora super-truccata e con gli occhi spenti che ha appena sgridato il suo bambino nella coda alla cassa. Forse non è sempre così. Forse è stata sveglia per tre notti di seguito tenendo la mano al marito che sta morendo di un cancro alle ossa. O forse questa signora è l’impiegata meno pagata della motorizzazione, che proprio ieri ha aiutato vostra moglie a risolvere un orribile e snervante problema burocratico con alcuni piccoli atti di gentilezza amministrativa». (Con buona pace di John R. Searle, che considera tutto ciò al pari di una secrezione biologica).

Il bello del nichilismo è che ci obbliga a riconsiderare ogni cosa, a tornare su noi stessi, a lasciar riemergere domande che avevamo seppellito sotto una coltre di pregiudizi e paure, magari per la convinzione che il destino da esse segnato fosse inevitabilmente quello di una delusione cocente; ma anche, forse e più sottilmente, per il timore delle pretese di cambiamento che una risposta inaspettata a quelle domande potrebbe implicare.

Il nichilismo del nostro tempo di Costantino Esposito viaggia in compagnia di nomi alti della filosofia e della letteratura, tuttavia non cede né all’ipertecnicismo, né, d’altra parte, alla banalizzazione di pensieri filosofici che non si lascerebbero semplificare senza perdere la precisione del loro contenuto. Lettura scorrevole ma impegnativa, dunque, che però consiglio a tutti.

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