Formazione

G8 e Genova 2004: Marta Vincenzi, presidente della provincia di Genova

Lo scorso venerdì 8 febbraio si è svolto presso il circolo Arci Tinacci a Genova la presentazione del libro "I silenzi della zona rossa".

di Mario Pesce

Lo scorso venerdì 8 febbraio si è svolto presso il circolo Arci Tinacci a Genova la presentazione del libro “I silenzi della zona rossa”, alla presenza dell’autore Mizio Ferraris la folta platea intervenuta ha potuto partecipare al dibattito alla presenza di Morettini, presidente dell’Arci Liguria oltre che ex portavoce del GSF, e Marta Vincenzi, che in qualità di presidente della Provincia di Genova ha vissuto insieme agli altri enti locali i momenti di preparazione del G8, il dialogo col movimento, nei riguardi del quale ha spesso mostrato un atteggiamento di dialogo non disgiunto da espressioni critiche.

Inform@rci, ufficio stampa dei circoli Arci Genova, le ha posto nell’occasione alcune domande sul G8 e sul prossimo grande appuntamento cittadino: Genova 2004 capitale europea della cultura. Questa vuole essere anche la prima di una serie di interviste che Inform@rci proporrà in vista delle elezioni locali ormai prossime, sui temi caratterizzanti l’associazione quali la cultura e l’impegno nel sociale.

D. : Quando si preparava il G8 questo era presentato come una grande opportunità per Genova. Finito, dopo gli scontri e le grate della “zona rossa” è stato trattato come qualcosa che ha “violentato” la nostra città. Tu, che hai vissuto entrambe le fasi, come presidente della Provincia, come hai vissuto questa trasformazione?

R. Il G8 l’ho vissuto come un’opportunità dal punto di vista della città, di quello che poteva rimane-re alla città, all’inizio, quando intorno al G8 si sapeva forse troppo poco, perché la nostra cultura in-torno ai temi della globalizzazione è venuta costruendosi, parlo del ceto politico se si vuole, proprio nell’anno che è passato, tra l’idea di avere in Italia il G8 e la sua realizzazione. Quindi inizialmente io come tanti altri ho colto solo l’ aspetto della positività di una città che si preparava ad un evento internazionale e che avrebbe potuto quindi, con questo evento, essere alla ribalta della scena internazionale ed andare a rafforzare un’immagine che era piombata verso il basso negli ultimi decenni e che facevamo fatica a ricostruire. Penso che fosse un’impostazione molto limitata, questo lo dico in modo autocritico, perché vuol dire che rispetto a tutto quello che si stava muovendo nel mondo la nostra idea di amministratori era veramente assai periferica. Però nei mesi che hanno preceduto il G8, quando ha cominciato a crescere la consapevolezza di cosa stava a significare per noi accogliere un evento di quel tipo, ma soprattutto quando ci si è resi conto, a partire dalla rete che si andava costruendo, reti di realtà associative, reti di persone, e addirittura di corpi che volevano mettere in discussione quell’evento che quello che dovevamo preparare era tutt’altra cosa, non poteva essere interpretato solo come un bene per la città, per quel poco o quel tanto che ci sarebbe rimasto dai fi-nanziamenti della Stato, ma che doveva essere interpretato come un bene per la città per quel tanto che sarebbe rimasto nelle nostre coscienze. Quindi non le pietre o il riaggiustamento del Centro Sto-rico, che pure sono stati importanti e dove soprattutto l’Amministrazione comunale ha mostrato grande efficienza, ma niente di tutto questo era il vero G8, ma era proprio questo muoversi di una consapevolezza nel mondo che portava e ha portato le moltitudini a confrontarsi con dei meccani-smi di potere che ormai non sono più quelli dei singoli Stati-Nazione ma sono dati da quell’insieme di realtà finanziarie, di realtà che hanno a che fare con la Banca Mondiale piuttosto che col Fondo Monetario Internazionale dentro le quali il G8 o il G7 (perché il Canada ha una funzione un po’ di-versa) pesano molto, contano molto e sono in grado quindi di portare avanti politiche che annullano la possibilità di una globalizzazione vera, cioè di una globalizzazione che consenta a tutti di parlare degli stessi diritti di cittadinanza, degli stessi diritti sulla qualità ambientale, per esempio, degli stes-si diritti di dignità rispetto al lavoro. E’ cresciuta questa consapevolezza, ha dovuto scontrarsi con una tragedia: è morto Carlo. Questa tragedia ha obnubilato per noi la possibilità di dire che alla fine è stato tutto positivo, perché quando muore un ragazzo non può essere questo.

D. Il campeggio dei manifestanti che venivano da tutte le parti del mondo a Porto Alegre è stato in-titolato a Carlo Giuliani.. C’è stata un’intervista ad uno degli organizzatori che lo ha definito “Non un martire, ma un simbolo”. Siamo d’accordo sulla distinzione tra “martire” e “simbolo”: vorremmo sentire tu cosa ne pensi. Quell’episodio per noi è stato vissuto come qualcosa che sarebbe potuto capitare a chiunque in quel contesto.

R. Sì, questo è il senso. Io non credo che si possa parlare di martirio per quello che riguarda Carlo, non credo neanche che si possa decidere in astratto se qualcosa o qualcuno sia un simbolo, perché non è una cosa che si decide a tavolino. Diventa un fatto simbolico quello che viene recepito in quanto tale da una grande quantità di persone. Questo è accaduto per Carlo, e non si può negare, perché la commozione non è durata un giorno o qualche mese, è andata avanti, si è dilatata, è diventata quindi un fatto simbolico, e su questo fatto simbolico credo che noi dobbiamo costruire la consapevolezza che, con Carlo, è finita l’infanzia del movimento No Global, o anzi New Global che non si può più pensare nei termini di una contrapposizione rispetto alla violenza di uno Stato di Polizia. Come si pensava nei termini sessantottini, per esempio, non si può più. Quindi, nella figura di Carlo vedo l’aspetto positivo di chi voleva partecipare ed esserci, ma anche una infanzia che non possiamo più considerare come positiva, cioè l’incapacità di rendersi conto che in certe situazioni bisogna non trovarsi. Può essere sgradevole dirlo, però è proprio un compito politico quello di non trovarsi in certe situazioni. In questo senso lo è un simbolo, un simbolo dannatamente impegnativo per tutti noi.

D. Tu, complessivamente, il tipo di rapporto che si è instaurato con il GSF e con le associazioni che ne facevano parte, lo consideri un’esperienza positiva per l’Ente Locale oppure no ?

R. Io la considero un’esperienza molto positiva, anche se il rapporto con l’ Ente Locale è stato visto più in termini strumentali dallo stesso movimento, nel senso che noi non eravamo veri interlocutori politici, eravamo interlocutori istituzionali. Ecco, quindi se vuoi questa barriera ha limitato la possi-bilità di un confronto vero. Però ho avuto in qualche momento la sensazione che intorno alla costruzione di una politica dell’ accoglienza, attraverso cioè la capacità di non confondere un’adesione politica complessiva alle parole d’ordine del movimento con l’aiutarlo comunque ad esprimersi e ad accogliere, potesse mettersi in atto una diversa fiducia tra un mondo che aveva guardato fino ad allora con un po’ di difficoltà alle istituzioni e le istituzioni stesse che non sono riuscite per molto tempo ad avere rapporti significativi con loro. Questa barriera ad un certo punto si è rotta e ha portato a risultati positivi, poi non tutto è andato, come sappiamo, nel modo migliore, questo però è un ragionamento che non credo possa colpevolizzare il GSF o il movimento in sé, ha a che fare con scelte più generali che riguardano soprattutto il Ministero degli Interni.

D. Ad un certo punto è sembrato come se gli Enti Locali più “locali”, Comune, Provincia, volessero instaurare un certo tipo di rapporto, di collaborazione con le associazioni e il movimento, mentre le istituzioni più grandi, Ministeri e Governo, tendessero a tutt’altro; hai vissuto anche tu questa impressione?

R. Sì, è stato così e per molto tempo le istituzioni locali sono state lasciate sole e questa solitudine, questo abbandono da parte del Ministero, come se il G8 fosse una cosa e il rapporto col movimento un’altra. Ci si è preoccupati soltanto di gestire l’incontro ufficiale. Anche da questo atteggiamento, cioè dal fatto di ignorare il ruolo del movimento può essere derivata una parte dei disordini e dei problemi che in quei due giorni si sono verificati.

D. Ora a Genova avremo un altro grandissimo appuntamento, quello del 2004: “Genova capitale europea della cultura”. Il modello di collaborazione che c’ è stato con il GSF e comunque con le associazioni che hanno partecipato alla contestazione durante il G8 è un modello che secondo te potrà essere applicato anche in quel contesto?

R. Bisogna volerlo. Certamente è difficile e complicato perché ci può essere il rischio che si perda tempo, non c’è l’abitudine, c’è come dicevi tu prima un’abitudine a delegare o ad informare a cose fatte o praticamente decise, l ‘abitudine a prendere insieme decisioni non è ancora così diffusa. Io penso che debba essere un passaggio che proviamo a fare e che intorno a questa data del 2004 ci possano essere delle opportunità, però, ripeto, bisogna volerlo molto politicamente e non è semplice perché poi non è soltanto un ragionare mettendoci intorno ad un tavolo con molte persone, bisogna essere disponibili poi a riorganizzare le risorse perché la scelta si può fare insieme su qualcosa che non si è ancora deciso. Quindi, per esempio la predisposizione dei Bilanci di Previsione degli Enti Locali è qualcosa che dovrebbe vedere la partecipazione di tutto questo mondo che vuole impegnarsi, vuole valorizzare al massimo se stesso e la società e quindi propone ed è disponibile ad una me-diazione. Tutto questo è molto complicato, nel piccolo abbiamo provato quest’anno a farlo col Bilancio di Previsione della Provincia del 2002 con una serie di incontri che abbiamo fatto con realtà associative, ma naturalmente non può essere confuso con il vero bilancio partecipato, è un tentativo di cominciare a riposizionare qualche obiettivo. Secondo me il futuro è quello se si pensa, come io penso, che l’obiettivo fondamentale sia la costruzione di una società che include e non soltanto di un meccanismo di sviluppo competitivo che anche sul piano locale mettiamo in essere.

D. Mancano soltanto due anni: non pensi che siamo già in ritardo? E soprattutto: con quale idea di cultura arriveremo nel 2004, di quale idea di cultura Genova dovrà mostrare di essere capitale?

R. Secondo me siamo abbastanza in ritardo, ma bisogna tenere conto che Genova 2004 così com’è stata intesa è un’occasione che consente alla città di concludere una fase di transizione, di cambiamento e quindi di mettersi in vetrina in una dimensione d’identità che la renda più riconoscibile. Quindi la soluzione che finora si è perseguita è quella del comitato Genova 2004 nel quale ci sono figure istituzionali e dove si deve decidere quali sono i filoni delle proposte più forti, dalle mostre agli interventi urbanistici che è il caso di mettere a fuoco per il 2004. Tutta un’altra cosa rispetto a quello che mi chiedi tu, che pare fino ad oggi non c’entri proprio nulla. Però c’è uno spazio in cui, credo, si è cominciato a ragionare in questi termini: Genova città educativa, cioè il tentativo di recuperare questa dimensione di scelta partecipata in alcuni settori che però fino ad oggi sono rimasti distanti rispetto a questo più decisionale ed efficientista del comitato che deve decidere dove spen-dere i soldi. Bisogna metterli insieme il più possibile, bisogna farli vivere insieme. Questa può essere la proposta e il cambiamento che nei prossimi due anni viene anche da queste sollecitazioni, speriamo di essere in grado di raccoglierle, certo che se vince la destra credo che di tutto questo non ne parleremo più.

D. In un articolo comparso sul Mulino, analizzando il discorso della cultura nelle città, si partiva dal presupposto che una cultura che non diventa parte della vita delle persone in realtà non ha peso. Per noi, per l’Arci, una risposta a questa sollecitazione è chiaramente che la cultura la devi vivere nelle associazioni e nel tessuto sociale sul territorio: il difficile è riuscire a trovare il canale attraverso cui queste esperienze possano essere valorizzate. Tu ritieni che quello della città educativa possa essere un modello da applicare per diffondere le iniziative presenti sul territorio e renderle fruibili?

R. Trovo che sia l’unica esperienza avviata in questi anni che va nella direzione che tu indichi. Trovo però che sia necessario fare una scelta più netta, ho provato anche a dirlo nella conferenza strategica che ha fatto il Comune, non so quanto sia stato inteso. Io penso che le città si stiano muovendo oggi su una dimensione che ha molto a che fare con il marketing territoriale: hanno fatto proprie modalità di ragionamento che hanno più a che fare con la cultura aziendalista. Questo in parte è do-vuto alla mancanza di risorse, al cambiamento dello Stato, il welfare stesso non è più quello a cui eravamo abituati, e nel momento in cui lo Stato non svolge gli stessi compiti di prima e ne demanda tanti agli Enti Locali, ripensare a come si fa ad avere delle risorse per riuscire a svolgerli diventa l’azione più importante, questo è innegabile. E’ vero però che se noi vediamo il ruolo delle città so-lo rispetto alle esigenze di marketing, solo come “azienda” che ce la fa con le sue risorse, rischiamo di vedere la città come un luogo dove imprenditori, banchieri e classe politica ragionano insieme e decidono dove prendere i soldi e come spenderli. Tutto questo probabilmente è ineludibile, ma se è soltanto questo allontana la possibilità che tu dicevi e cioè che governare una città sia anche uno strumento per ricostruire una dimensione di socialità condivisa, per ritrovare la dimensione del sociale come fondamentale per cambiarlo questo mondo, con modelli di relazioni che non sono più quelli delle identità di un tempo ma che non possono essere quelle della solitudine magari in quar-tieri ristrutturati o con interventi fatti senza il coinvolgimento di nessuno. Le due cose vanno fatte vivere insieme, è questo il tema, il cambiamento è all’attenzione delle scelte politiche, non si può se non decidendo politicamente qual è la priorità.

D. Non pensi che questo insistere sulla visione aziendalista dell’ amministrazione pubblica non sia un sistema per evitare di prendere decisioni politiche? Un atteggiamento molto trasversale utilizzato per evitare di prendere posizione, limitandosi a fare delle medie tra le richieste che ti vengono fatte dalle diverse parti in causa?

R. Vedo appunto questo come rischio, e vedo che in questo si perda anche il senso dei diritti e della dignità dell’uomo, perché allontanare dalla politica è proprio l’obiettivo di un sistema globale che diventa impero, direbbe Hardt, che ha scritto uno splendido libro che è uscito in questi giorni. “Non parliamo di politica, cosa vuoi che sia la politica, le grandi questioni, i diritti, l’uguaglianza, la giustizia, lasciamole perdere, vediamo come si può vivere meglio e come chi ha può continuare ad ave-re. Poi ci vuole un po’ di compassione nei confronti di chi non ha e questo può essere elargito dal sistema.” E’ un altro punto di vista ma d’altra parte che cosa si dice, che un altro mondo è possibile?

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