Welfare

Alternative al carcere. Il lavoro libera

Primo in italia, il tribunale di monza offre ai condannati per reati minori la possibilità di scontare la pena lavorando per il sociale. Già 100 detenuti hanno detto sì

di Cristina Corbetta

Parte da Monza la sfida dell?alternativa alla detenzione per i reati minori. Appartiene infatti al Tribunale di questa città il primato di essersi già mosso sulla strada dell?applicazione del decreto legislativo 274 del 28 agosto 2000 (ma entrato in vigore da poche settimane), che attribuisce al giudice di pace competenze anche in materia penale, e che introduce pene diverse dalla detenzione, tra cui il lavoro di pubblica utilità. Due aspetti, questi, che a Monza hanno avuto attuazione in due atti prioritari: la predisposizione da parte del Tribunale di un albo delle associazioni che hanno dato la loro disponibilità all?offerta di lavori di pubblica utilità; e la firma di un protocollo tra Tribunale e Caritas in base al quale da subito cento persone potranno estinguere il proprio debito con la giustizia mettendosi al servizio dei bisognosi. Una sfida? Probabilmente sì: «Si tratta di fare in modo che il coinvolgimento delle persone non sia solo esecutivo», spiega Luca Massari, responsabile del gruppo carcere Caritas, «ma riesca a recuperare il concetto di pena come composizione delle fratture dei rapporti provocate dal reato. Solo così questa iniziativa può assumere il ruolo di esperienza trasferibile a una più ampia parte del sistema penale». Di ?sfida possibile? parla anche Francesco Maisto, sostituto procuratore generale presso la Corte d?appello di Milano, che però mette in guardia dai facili entusiasmi: «Non è la prima volta che parliamo di depenalizzazione delle pene detentive brevi, prevista fin dal 1981 dalla legge 689 ma mai attuata. E anche la firma di un protocollo non significa che ci siano le condizioni per operare. Basti pensare alla questione dei bambini sotto i tre anni in carcere con le madri. Esiste un protocollo da tempo, ma la struttura per accoglierli non si è ancora trovata». «Il fatto è», continua Maisto, «che questo modello deve essere accettato dalla comunità. E non è un caso che parta nei Tribunali e nelle comunità dove è maggiore la sensibilità in questo campo». Ma come funziona la nuova normativa? «È un meccanismo di ragguaglio; ad esempio, se in relazione a reati che per il codice prevedono la reclusione si dovesse applicare la nuova pena, ci troveremmo davanti a tre alternative: la multa, la permanenza domiciliare da 15 a 45 giorni o il lavoro di pubblica utilità da 20 giorni a 6 mesi: quest?ultimo prevede 6 ore la settimana e non più di 2 giornaliere, e deve essere un?attività non retribuita a favore della collettività da svolgersi presso enti statali o associazioni di volontariato». Semplice? Per nulla. Maisto spiega che servono precise condizioni strutturali e altrettanto rigorosi obiettivi di cambiamento: vale a dire risorse, servizi sociali, chiarezza sui criteri di scelta di chi offre il lavoro e dei condannati. L?esperienza di Monza dimostrerà se e quanto è possibile passare dalle ipotesi ai fatti.


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