Mondo

Rushdie, il futuro è nelle parole

Auguriamo a Rushdie una pronta e completa guarigione, ma la sua incolumità - come anche quella di altri intellettuali, artisti e scrittori che hanno il coraggio di difendere non soltanto le proprie idee ma il dibattito e il confronto tra visioni diverse del mondo - va difesa con tutti i mezzi perché questa è anche la nostra ultima frontiera, il nostro ultimo cielo

di Anna Detheridge

“Dove potremo andare dopo l’ultima frontiera, dove potranno volare gli uccelli dopo l’ultimo cielo?”, chiede il poeta palestinese Mahmoud Darwish. La risposta di un giovane Salman Rushdie in conversazione con il grande intellettuale palestinese Edward Said nel 1986 è che non ci sono più cieli, e dopo l’ultima frontiera per chi è esiliato non c’è più terra. Queste parole quasi profetiche, pronunciate in occasione della presentazione di un libretto prezioso quanto introvabile di Edward Said e il fotografo svizzero Jean Mohr After the Last Sky sulla Palestina, mi sono venute in mente dopo il terribile attentato alla vita di Rushdie, grande scrittore e intellettuale, spesso misconosciuto al di fuori dei Paesi di lingua inglese, ricordato soltanto per aver offeso l’Ayatollah Khumaini che lo ha condannato a morte per blasfemia nel lontano 1989.

Auguriamo a Rushdie una pronta e completa guarigione, ma la sua incolumità come anche quella di altri intellettuali, artisti e scrittori che hanno il coraggio di difendere non soltanto le proprie idee ma il dibattito e il confronto tra visioni diverse del mondo, va difesa con tutti i mezzi perché questa è anche la nostra ultima frontiera, il nostro ultimo cielo.

Dove potremo andare dopo l’ultima frontiera, dove potranno volare gli uccelli dopo l’ultimo cielo?

Mahmoud Darwish

La costanza e la determinazione che hanno avuto personalità quali Edward Said, Salman Rushdie e Ai Weiwei per esempio nel difendere le ragioni della democrazia nei loro Paesi d’origine prima ancora che nei nostri, nel raccontare la loro preziosa ibridità, la loro spesso tormentata esistenza, la difficoltà di portare con sé un’identità indefinita perché non corrispondente a delle frontiere riconosciute, vissuta piuttosto dentro un “terzo spazio” interiore, sempre in movimento, vanno compresi e distinti dalle mere rivendicazioni di parte. Il piagnisteo politically correct non ha nulla a che vedere con il postcolonialismo di cui sono stati i pionieri, perfettamente in grado di capirne i limiti, come anche i paradossi della Storia pre e post coloniale.

Nell’epoca confusa che viviamo, fatta di rigurgiti nazionalistici sullo sfondo di movimenti tellurici che non conoscono barriere, l’intelligenza, l’immaginazione e soprattutto la voce di queste persone ci sono indispensabili per riacquistare il senso del mondo in cui viviamo, dare una dimensione e dei contorni agli eventi che ci soverchiano.

Rushdie nato da una famiglia di religione musulmana di Mumbai, Said nato in Palestina da padre americano, docente alla Columbia University di letteratura comparata, come anche Ai Weiwei artista e attivista cresciuto in Cina di padre esiliato, e molti altri nati a cavallo di diverse culture, sono in grado di parlare al nostro mondo, ma soprattutto (ed è questo che non comprendiamo) dialogano con la loro cultura (o culture) di origine, mantengono un rapporto non soltanto razionale, ma fortemente affettivo e combattuto con i propri Paesi di appartenenza.

Edward Said, con i suoi testi seminali Orientalism e Culture and Imperialism, ha spiegato come il mondo intellettuale occidentale nel momento della massima espansione si sia alleato al potere attraverso la fascinazione con l’Oriente asservito e circoscritto dall’esotismo. La categoria dell’esotico come chiave di lettura dell’altro diventa nella letteratura e nell’arte dell’epoca una forma di giustificazione dell’aggressione imperialista. Nell’eloquente studio sul mondo mediatico occidentale Covering Islam, Said ha spiegato come l’Occidente abbia “inventato” il mondo arabo, partecipando a costruire in carne ed ossa il proprio nemico attraverso l’icona dell’arabo in abiti tradizionali con il fucile puntato.

Rushdie, nei suoi romanzi favolosi che qualcosa devono a Dickens e molto al Realismo magico di Marquez, ricostruisce mondi paradossali a volte con feroce umorismo. La parodia di un clero cupo e senza humor, che in esilio a Parigi ha vissuto in clausura con le tende abbassate per non essere contaminato dall’Occidente, è probabilmente la causa vera della fatwa. Rushdie parla sempre e comunque di narrazioni del mondo spesso in conflitto, ma in ogni caso interpretazioni; la sua letteratura è autoriflessiva e pone mille domande ma non per questo è relativista.

Come anche altri grandi pensatori del postmodernismo e del postcolonialismo come Stuart Hall, non è attratto dallo “sport” accademico di spaccare il cappello in quattro come avviene nelle facoltà di Cultural Studies attualmente alla moda. I fondatori avevano tutt’altro obiettivo, non la separatezza e l’arroccamento sulle proprie posizioni, ma il fermo proposito di trovare punti di dialogo possibili, indagare la natura sempre mutevole dei nostri mondi plurali anche interiori.

Si ha tutti oggi la sensazione che il mondo si stia restringendo, che ci stia spingendo verso l’ultimo passaggio, ci stia venendo addosso. Per Said in particolare la Palestina che ha conosciuto da giovane non corrisponde in nulla a ciò che è diventata, la sua frammentazione, il suo isolamento. Già negli anni ’90, Said intravvedeva il rischio della “militarizzazione” dell’identità palestinese, ridotta esclusivamente all’immagine di un popolo in lotta, privato di ogni altra dimensione culturale e di memoria. Non solo, ma diffidava di tutti coloro che lo avvicinavano come portavoce di un’identità propagandata sulla punta di una baionetta. In tutto il mondo nascono associazioni pro Palestina, diceva, meravigliato che gente che non ne sapeva nulla volesse “combattere per una causa”.

Si ha tutti oggi la sensazione che il mondo si stia restringendo, che ci stia spingendo verso l’ultimo passaggio, ci stia venendo addosso

L’esperienza della diaspora è stata fonte di riflessioni personali anche per Amitav Ghosh, nato in India ma ritrovatosi bengalese per quelle shadow lines, le linee d’ombra che sono diventate le frontiere mobili che definiscono l’identità delle persone che sempre meno corrispondono alla realtà interiore dei soggetti. Ghosh è testimone prezioso anche di temi quali il cambiamento climatico (La grande cecità: il cambiamento climatico e l'impensabile 2017) visto da un’altra prospettiva, quella del delta bengalese dove vivono centinaia di migliaia di persone.

Oggi il numero di migranti, di rifugiati e di dispersi nel mondo ha superato novanta milioni di persone. Salman Rushdie si chiede: potranno sopravvivere popoli privati della loro terra? La sua risposta è che esistono e sopravvivono se c’è una comunità di riferimento. Quali sono i codici di sopravvivenza di chi non ha più un’appartenenza? Possono esistere nella nostra memoria. Esiste la narrazione ripetuta, l’allargamento della comunità che sa, che riconosce la verità, una comunità che riannoda continuamente i fili e che di porta in porta trasmette verità ingombranti. Perché questo è il punto. Come già intuiva Said, i luoghi sono sempre meno ospitali. La distruzione della Beirut dei tempi felici nel 1982, documentata alcuni anni dopo dal fotografo Gabriele Basilico in tutta la sua monumentalità, è stato uno spartiacque per tutto il Medio Oriente. E la nostra sensazione oggi è di vivere in un mondo di ceneri.

E quando avremo abbattuto l’ultimo cielo, dove andremo? L’ingiustizia dell’espulsione a causa delle guerre, della persecuzione o delle catastrofi naturali è un’esperienza non ancora riconosciuta, forse perché troppo scomoda, troppo enorme. Il male del futuro sarà più che lo sfruttamento, forse l’esclusione? Nel dibattito in lingua inglese, quando si parla di espulsione, si parla spesso di autodeterminazione, ma i popoli arabi parlano più semplicemente di “ritorno”.

Le parole sono mobili come anche i concetti, vanno capiti, tradotti, interpretati; le esperienze degli altri sono spesso indicibili e vanno comprese. Abbiamo bisogno di coinvolgere più persone nella discussione, di energie costruttive e soprattutto di persone che hanno il coraggio di difendere i valori della giustizia sociale e della democrazia ovunque si trovano.

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