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D’Eramo: «Siamo sempre turisti, anche nella vita quotidiana»

Prima del Covid, il turismo di massa era sottoposto a critiche, ma poche coglievano il segno. Da industria pesante, oggi, il turismo si sta ripensando. Ma per farlo davvero deve ripensare la condizione stessa del turista

di Marco Dotti

Homo viator, si diceva un tempo. L'uomo viaggiava sempre, anche attorno alla propria stanza, alla ricerca di un senso. Poi la stanzialità di massa e il turismo (anch'esso: di massa) hanno cambiato le cose. Fino a tempi recenti. Indagare la condizione turistica, partendo dal soggetto (il turista) e dalle sue relazioni con l'oggetto (l'industria turistica) è un compito arduo. Ma qualcuno ci ha provato. Giornalista, specializzatosi in sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi, Marco d'Eramo ha pubblicato Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo (Feltrinelli, 2017), libro che fa il punto sulla nostra "condizione turistica" e, soprattutto, sul nostro tempo.

Che cos’è il turismo?
Il turismo appartiene a una categoria di fenomeni sociali, come lo sport o la pubblicità, che sono onnipresenti nella vita di tutti. Fenomeni familiari, ma sempre e comunque privi di una elaborazione critica. Questo ci impedisce di ragionare sul turismo senza assumere un tono moralistico e sprezzante verso le “masse di turisti” che affollano le nostre città. Ma, al tempo stesso, blocca ogni ragionamento su quella che è una vera e propria industria. Un importante comparto industriale pesante, talmente importante che la nostra epoca può essere seriamente definita “l’età del turismo”.

Il turismo è un’industria pesante. Non è un’opinione personalmente, ma un dato di fatto. Anzi, il turismo è forse, oggi,l’industria più pesante, più importante, più impattante sull’ambiente ma anche sulla topografia urbana e più generatrice di cash-flow del XXI secolo. Quando parliamo di turismo parliamo dunque di qualcosa di evidente, ma di non visto. Tutti sappiamo cos’è il turismo o crediamo di saperlo.

Ma quanto sappiamo dei suoi costi complessivi per il pianeta?
Ecco perché dobbiamo sempre considerare, quando parliamo di turismo di massa, anche la sua matrice: il turismo come industria pesante. Come tale, il turismo ha milioni di addetti, muove miliardi di dollari, produce e induce innovazione tecnologica e si serve di forza lavoro bruta.

Nel 1950 i turisti internazionali erano 25 milioni l’anno, ora sono 1 miliardo e 200 milioni. Il fatturato mondiale del turismo è di 1.500 miliardi di dollari. Se s’include il turismo domestico, il totale supera il prodotto interno lordo del Giappone che, ricordiamolo, è la terza potenza mondiale. In Italia il turismo genera circa il 10 % del PIL e dei posti di lavoro. Ma oltre all’impatto diretto va considerato tutto ciò che sta a monte e a valle: quanti aerei in meno si fabbricherebbero senza turismo? Quante auto? Che cosa dire, poi, dell’edilizia turistica fatta di mega alberghi, residenze secondarie, cementificazione delle coste? Non ci rendiamo conto dell’immane dimensione materiale che comporta un’industria cosiddetta immateriale come il turismo. Basti vedere come è cambiata la geografia di certe zone, pensiamo alla Costa Smeralda in Sardegna.

Se questa è l’evidenza, perché continuiamo a considerare il turismo come un fenomeno tipico della postmodernità immateriale? Forse perché l’elemento del “superfluo” ci seduce anche come osservatori, ma ci fa distogliere lo sguardo da quanto, ad esempio, sia impattante e inquinante l’industria del turismo di massa.
Questo ci mostra quanto assurda sia la contrapposizione tra moderno e postmoderno. In quanto ricerca e viaggio verso qualcosa che generalmente classifichiamo come “superfluo”, il turismo rientra di diritto nel postmoderno. Ma la sua materialità fatta di acciaio, auto, aerei, navi, cementifici, silicio lo situa tutto dentro la pesantezza industriale del moderno.

Poi ci sono i turisti, i “clienti”. I clienti dell’industria turistica sono anche i suoi impiegati. Il turismo rivela la sua posizione nevralgica perché, come molte altre attività, ma in modo più chiaro rispetto a altre attività, è una pratica universale che consiste in questo: chiunque la pratica, disprezza gli altri che la praticano» Il turismo non è però una condizione umana, è una situazione. In un momento sei turista, in un altro momento non lo sei. Dobbiamo quindi lavorare sulla situazione: capirla e, se possibile, migliorarla. Ma se ci limitiamo a disprezzare il turista (noi, turisti a nostra volta), che cosa facciamo se non chiudere gli occhi davanti alla realtà?

Perché quando gli snob disprezzano il turista, lo rendono un tipo umano, come un carattere di Teofrasto: l’avaro, il burbero, l’iracondo e il turista. È questo che permette di dire «io sono viaggiatore, tu sei turista». Come se ci fosse una differenza. La differenza la fa il contesto, la situazione, non l’intenzione.

Però, a dirla tutta, la questione ha un fondo di verità, perché siamo costantemente dei turisti anche nella vita quotidiana. Siamo sempre turisti, anche nelle nostre città.
La condizione turistica è così pervasiva e designa bene l’epoca in cui viviamo perché coglie un nostro modo di stare al mondo, un nostro modo di vivere questo mondo. È sempre un doppio movimento, quello che ci rende turisti nella vita. Un doppio movimento di distanziazione e avvicinamento.

Vita ha dedicato il suo numero di maggio al tema del turismo e alle sue evoluzioni (di prossimità, d'esperienza, di comunità).

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