Economia

Agricoltura sociale, ecco le alleanze contadini-consumatori

Una nicchia emergente della filiera alimentare italiana è costituita dalle Comunità che supportano l'agricoltura - Csa, realtà in cui i consumatori e i produttori partecipano insieme ai rischi e ai benefici dell'azienda. Un progetto di una ricercatrice dell'Università di Bolzano, Alessandra Piccoli, ne ha mappato la distribuzione nella Penisola

di Veronica Rossi

Da qualche anno in Italia stanno sorgendo delle cooperative agricole che sono molto di più di semplici imprese: sono luoghi di incontro, di condivisione e di riappropriazione della filiera del cibo. Si tratta delle Comunità che supportano l’agricoltura Csa – Community supported agriculure, in inglese –, aziende in cui i consumatori diventano parte integrante del processo produttivo, compartecipano dei rischi e godono insieme dei frutti della terra. “Da noi le esperienze di questo tipo sono piuttosto giovani”, spiega Alessandra Piccoli, ricercatrice dell’Università di Bolzano che ha ottenuto un contributo dalla Fondazione Finanza Etica per un progetto di mappatura delle Csa a livello nazionale. “Le prime hanno circa una dozzina d’anni, ma la maggior parte delle altre è nata nell’ultimo quinquennio. È un fenomeno emergente”. La distribuzione di queste cooperative non è uniforme nella Penisola. “La maggior parte delle realtà che ho intercettato, circa una decina, si trovano nel Nord”, continua la ricercatrice, “al Centro ce ne sono tre o quattro, mentre al Sud se ne possono trovare due, una a Napoli e una, ancora in fase quasi embrionale, in Puglia”.

Unirsi a una Csa non significa solo rifornirsi di generi alimentari in un contesto etico e all’interno di una filiera controllata, ma anche partecipare attivamente alla produzione, entrare nei campi, lavorarli, rendersi conto delle difficoltà della vita agricola. “La nostra cooperativa è composta da tre soci lavoratori e da altri soci, che possono prendere due strade”, afferma Riccardo Razionale, uno dei dipendenti di Semi di comunità, Csa di Roma. “Chi vuole semplicemente partecipare alle attività comunitarie e accedere agli orti può pagare solo 100 euro una tantum; chi invece vuole anche portarsi in tavola quello che viene coltivato può pagare una quota, circa 450 euro all’anno, e ricevere ogni settimana ciò che gli spetta del raccolto, diviso in parti uguali”. Le eccedenze, infatti, non vengono vendute.



Si tratta di un sistema equo, in cui se il periodo è buono e si produce molto, ciascuno ottiene di più, se il periodo è cattivo e si produce poco, tutti avranno un po’ meno. In questo le Csa si differenziano anche dalle aziende agricole che fanno dei prefinanziamenti: non c’è un corrispettivo al chilogrammo rispetto al prezzo che viene pagato in anticipo. Tutto viene condiviso, i rischi come i benefici.munità viene interamente fin “Ciò che facciamo all’interno di Semi di comunità viene interamente finanziato dai contributi dei soci; ne abbiamo 170, quindi annualmente abbiamo a disposizione circa 76.500 euro. Ogni anno sappiamo che deve esserci più o meno questo numero di persone che si impegnano a pagare le loro quote. Di solito chi entra rimane nel tempo, c’è un ricambio che si aggira intorno al 15%”. In questo modo viene ottimizzata anche la produzione: nulla avanza, tutto viene redistribuito.

Anche se le Csa rimangono ancora realtà di nicchia – non tutte le Regioni, per esempio, ne hanno –, sicuramente l’interesse per una filiera alimentare diversa è in crescita e le realtà dello Stivale si stanno organizzando. Nel 2018 è nata a Rete italiana delle Csa – Ricsa, che costituisce un coordinamento informale e che ha contribuito attivamente al lavoro della ricercatrice dell’Università di Bolzano. “Si tratta di un fenomeno poco noto, che non viene ancora preso troppo in considerazione nemmeno dagli studiosi”, dice Piccoli, “ma fare una mappatura ha consentito di disegnare i perimetri di queste esperienze, che attraverso il progetto hanno potuto conoscersi e capire meglio i propri punti di forza e di debolezza”.

Chi fa parte di una Csa, di solito, diventa un consumatore più attento e consapevole: si sente più responsabilizzato rispetto all’ambiente e alla natura. Ma non solo. Entrare in un’esperienza di questo tipo significa intraprendere un percorso di comunità, di partecipazione. “Ci si riappropria della sovranità alimentare”, conclude la ricercatrice, “come controllo dell’individuo e della collettività sul proprio sostentamento e sui modi in cui questo viene coltivato e fatto crescere”.

Le foto sono di Ilaria Turini della Csa Semi di comunità, per gentile concessione.

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