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Cosa abbiamo imparato a Kjiv

Quando il campione dei pesi massimi Vitalji Klyscko, sindaco di Kiev, due metri imponenti di compostezza in divisa sportiva, ma non militare, con i tratti somatici di un eroe holliwoodiano, ci ha accolto pronunciando queste parole “ringrazio voi Europei che siete venuti fin qui pur sapendo che io non avrei potuto garantirvi la sicurezza” ho capito che eravamo al posto giusto a fare la cosa giusta

di Angelo Moretti

Quando il campione dei pesi massimi Vitalji Klycko, sindaco di Kiev, due metri imponenti di compostezza in divisa sportiva, ma non militare, con i tratti somatici di un eroe holliwoodiano, ci ha accolto pronunciando queste parole “ringrazio voi Europei che siete venuti fin qui pur sapendo che io non avrei potuto garantirvi la sicurezza” ho capito che eravamo al posto giusto a fare la cosa giusta.

A chi urla in modo scomposto qui in Italia, al sicuro davanti alla sua tastiera, che questa è una guerra tra “gli invasati” (ucraini) che combattono gli invasori ( i russi), si contrapponeva, nella sala delle Colonne del Municipio di Kyiv, tutta la tenerezza ed il senso del “limite” di un pugile che sa che i suoi pugni non bastano a mettere sicurezza agli amici, che le munizioni non sono sufficienti a ripararsi dai missili che possono piovere all’improvviso sui tetti dei palazzi e che, proprio per questo, ringraziava il dono della presenza di chi in modo disarmato e indifeso era lì di fronte a lui. Ci ringraziava per quell’affronto fatto al potere di morte delle armi. “Vi ringrazio perché siete qui anche se io non posso proteggervi”. E poco dopo arriva un secondo affondo dal pugile: “Mia madre è russa. Metà di noi parla russo, chi dice che non consentiamo di parlare questa lingua dice bugie! Noi conviviamo con oltre venti etnie!”. Poi il terzo e più disperato “I Russi non vogliono conquistare gli ucraini, perché ci ammazzano e distruggono le nostre infrastrutture, le nostre fabbriche, Putin e la federazione Russa vogliono solo il nostro territorio, non vogliono noi”. È il grido di chi non solo è perseguitato, ma vive anche il dolore cocente di essere incompreso dal resto del mondo che lo guarda soffrire sotto i colpi di mortaio. Sotto le vesti di questo apparente gigante “maschio alfa” si nascondeva lo stesso grido di una donna che urla per la violenza domestica che subisce da anni e che i vicini ed i parenti provano a consolare asserendo che in fondo “il suo uomo fa così perché la ama”.

Prima di Kyiv, prima di Leopoli, prima di parlare ad Orest, ad Igor, a padre Ihor, a Gloria, a Vlada, a Natalia, prima di ascoltare Vitalji, guardavo a questa guerra dalla prospettiva unica del mio moralismo, confondendolo con il semplice e razionale buonsenso di un uomo medio che desidera la pace.


Dopo aver visto i monumenti protetti come chi deve nascondere i gioielli di casa ad un ladro imminente, dopo aver visto Tatyana piangere perché la sua capitale così spoglia e povera è per lei irriconoscibile, dopo aver gioito con Natalia nel vedere di nuovo il museo nazionale pieno di visitatori, con lo stesso imbarazzo di chi apre una casa un po’ in disordine perché le stanze dei reperti avevano fatto spazio alle derrate alimentari, dopo tutto questo, ho imparato una sola cosa nella marcia nonviolenta dell’11 luglio: l’Ucraina non deve essere lasciata sola, mentre oggi lo è, i nonviolenti di Europa qui non ci sono ancora.

Le armi cedute dall’occidente saranno utili alla difesa, ma non hanno alcun potere ditogliere il dolore di questo popolo e di togliere veleno alla guerra. Abbiamo sognato di essere minimo in cinquemila a dire : siamo qui con voi! Ci siamo girati ed eravamo solo cinquantaquattro (anche se con il tifo in diretta di 15 piazze con oltre 1500 persone presenti), ma abbiamo deciso di non fermare la nostra marcia, pur sapendo che non bastiamo, proprio come non bastano i pugni di Vitalji.

Avremmo potuto infatti rispondere: “Grazie per averci accolto caro Vitalj anche se sappiamo che in 54 non possiamo circondare l’Ucraina ed essere un vero corpo di interposizione contro l’aggressione in corso, ma promettiamo di farlo”.

Ed allora ci siamo detti: non siamo solo 54, siamo solo i primi cinquantaquattro dei cinquemila che coinvolgeremo in questa lotta nonviolenta. Ma poi abbiamo capito che in cinquemila saremmo ancora pochi per circondare il paese, dobbiamo puntare ad essere milioni di persone se vogliamo davvero far tacere le armi.

Noi siamo sicuri di essere dalla parte giusta, perché è quella degli oppressi e non smetteremo di urlare che no, non è amore, non è una lotta insensata tra due popoli fratelli un po’ discoli, è un’aggressione ad un popolo libero che non sogna di evacuare l’Ucraina per sottrarre morti alla guerra, come io stesso avevo sperato, con il mio moralismo, che potesse accadere.

Questo popolo ha in testa la vittoria, e noi vorremmo dir loro che con la loro resistenza hanno già vinto mentre ora tocca a noi entrare in partita e costringere le squadre ad andare negli spogliatoi, iniziare negoziati duri, in cui tutti perderanno qualcosa, non solo gli ucraini, non solo i russi, ma anche gli europei, anche gli americani, anche i cinesi, anche i turchi, anche gli indiani, i Brics come i Piigs, la Nato come l’UE, l’Africa come la Via della Seta.

Dall’Ucraina inizia un nuovo ordine mondiale, questo è ormai chiaro a tutte e tutti, ma se questo ordine fosse il frutto di una vittoria militare che ordine sarà? Che futuro stiamo garantendo alle nuove Greta, alle nuove Malala, ai nuovi venditori di gelsomini come Tarek che fecero partire le primavere arabe? Chi sarà il futuro Ian Palach di Europa se il suo corpo dovesse ancora bruciare inutilmente?

Abbiamo imparato una sola cosa a Kyiv: la pace si fa, non si chiede, ma se non l’agiamo noi che oggi viviamo in un mondo libero e democratico, chi dovrebbe farla?

Non verrà nessun carro armato a fermare i carri armati di piazza Tienanmen. In una lotta nonviolenta cadranno studenti e pensionati, come è successo a Majdan, ma avremo messo in piedi un nuovo “ordine” basato sui principi di un pugno che desidera diventare carezza, di una nonviolenza che non chiede altro se non di cominciare a vivere e dettare la linea, oggi. Domani potrebbe essere troppo tardi. In marcia!

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