«Il punto del matrimonio è questo: la qualità della relazione è il fine stesso della relazione. Comprendere questo ha conseguenze anche sul piano civile, perché il matrimonio non ha valore per la società solo in quanto produce quei beni che solitamente la politica riconosce – meno costi di assistenza, meno consumo di suolo, meno consumi – ma il primo bene sociale che il matrimonio produce è una relazione fatta di libertà ed eguaglianza. È questo che io sintetizzo con la parola “amore”. Se si mette in luce questo, se si parte da qui, cambia radicalmente tutto il discoro sul matrimonio». Alberto Melloni insegna Storia del cristianesimo all'Università di Modena-Reggio Emilia e ha da poco pubblicato Amore senza fine, amore senza fini (il Mulino), un volumetto solo apparentemente sottotono (il sottotitolo è “Appunti di storia su chiese, matrimoni e famiglie”) che ha gettato scompiglio all’interno del dibattito con cui la Chiesa cattolica si avvicinava al Sinodo sulla famiglia del 4-25 ottobre. Un volume che racconta il matrimonio come «storia di perdono, di custodia e di ripensamento», che contempla «la vulnerabilità dell’amore» e incoraggia a «fidarsi della fragilità» e che ha molto da dire all’uomo di oggi, non solo ai cattolici.
Lo abbiamo cercato per provare a capire qual è la portata simbolica e culturale della scelta di Papa Francesco di riformare l’iter per la nullità del matrimonio e perché questo documento, nella mitezza con cui si china sulle ferite riguarda in realtà un po’ tutti quelli che «nel cammino della vita osano mettere la vita nelle mani di un altro».
Perché è necessario ripensare il concetto di matrimonio e di famiglia? E perché lo deve fare proprio la Chiesa dal momento che sulla scena culturale oggi abbiamo comunque già tante altre proposte di unione?
Quando noi oggi parliamo di famiglie e matrimonio, con tutte le varianti e i plurali del caso, non parliamo in realtà di cose tanto diverse. Il matrimonio oggi ha una radice unitaria, quella del matrimonio tridentino, che prevede il consenso tra i due coniugi e due ospiti ingombranti: i fini (essenzialmente il remedium concupiscienzae e il fare figli) e l’autorità. Non si esce da questo modello, tant’è che anche nella discussione più progressista sulla scena, quella sul matrimonio fra persone omosessuali, il punto è sempre ancora l’autorità dello Stato che riconosca il matrimonio e i fini ovvero la questione dei figli e dell’adozione. Se non vogliamo rimanere fermi lì dobbiamo recuperare il fatto che il matrimonio vive nello scarto fondamentale che c’è in ciò che Gesù dice di esso: da un lato ripudia la pena di morte per l’adultera, dall’altro dice “chi sono mia madre e i miei fratelli?”. Gesù annuncia una possibilità per il coniugio e nel tempo stesso ne dice l’irrilevanza. L’annuncio di Gesù è un annuncio che dice che la relazione fra due persone è più grande e al tempo stesso più piccola di quello che ci si può aspettare, che l’amore e il coniugio è infinitamente fragile e infinitamente forte, che nell’amore è possibile vivere già qui l’unione così come la voleva Dio prima dell’inizio del mondo e insieme che la relazione non conta nulla davanti al Regno. Le cose viste da qui assumono tutta un’altra prospettiva.
Partire dalla relazione e dalla fragilità significa contemplare la possibilità del fallimento o la fine dell’amore?
Mi ha colpito che la discussione in preparazione del Sinodo, su divorziati, risposati e omosessuali, ha avuto una declinazione tutta giocata sulla teologia morale, mentre i due veri punti del discorso sono Eucaristia e penitenza. La Chiesa sente di avere l’autorità di unire e di sciogliere ma non quella di comunicare il perdono di Dio a chi ha fatto un’esperienza di matrimonio fallimentare, che non necessariamente è nulla, è solo andata male, come capita nella vita? È un cul-de-sac. Che distinzione è quella fra “coniuge innocente” e “coniuge colpevole”? Se c’è una cosa certa nel matrimonio è questa, che non si possono dividere le responsabilità e le colpe, attribuendole solo a uno o solo all’altro. Le ripeto, è un cul-de-sac se non si riesce a indicare la via della penitenza.
Cioè della misericordia, su cui tanto insiste Papa Francesco?
Sì, tant’è che Papa Francesco, con l’indizione dell’Anno Santo della Misericordia ma anche con il motu proprio Mitis iudex Dominus Iesus ci dice di non essere disposto ad arretrare: non considera la sua posizione sulla famiglia, il matrimonio e la misericordia come una materia politica, ma una questione teologica. Il Concilio di Trento diceva che la Santa Eucaristia toglie tutti i delitti, anche quelli più gravi. L’Eucarestia non è il certificato di cittadinanza della Chiesa cattolica o di appartenenza a una statualità ecclesiatica: è una medicina, che guarisce tutto. Non c’è una “proprietà” dell’Eucarestia. Dobbiamo ripartire dal sacramento, dal Vangelo, non dalla valutazione dei peccati. Se si guarda alla condotta morale e al catalogo dei peccati non si può andare lontani da Alfonso de’ Liguori, secondo cui la penitenza per il peccato più grave deve essere piccolissima perché il percorso interiore che hai fatto per arrivare a confessare quel peccato è stata già la tua penitenza. Ma se lo si prende dalla parte dell’annuncio di Gesù, le cose assumono un’altra prospettiva. Capisco che questo radicale disancoramento è scandalosissimo, anche oggi: pensi – lo scoprì il Cardinale Martini, da biblista – che nel IV secolo i copisti saltarono il capitolo dell’adultera dal Vangelo perché pensarono che fosse “troppo”.
L’ha sorpesa il motu proprio del Papa di riforma dell’iter per ottenere la nullità del matrimonio? Spiazza tutti i giochi di potere dei fronti interni alla Chiesa, in vista del Sinodo, no?
Con questa mossa Papa Francesco ha bruciato le soluzioni facili. Poteva non pubblicare il motu proprio e darlo al Sinodo, così il Sinodo avrebbe potuto dire “Ecco, abbiamo prodotto questo, siamo arrivati a un bel risultato” e fare bella figura davanti al mondo. Lui ha bruciato le tappe, è come se ai Vescovi dicesse: “Cercate ancora, cercate qualcos’altro”. È un alzare l’asticella, oppure un calcio nel sedere: questo lo dimostreranno i Vescovi, che non sono lì per giudicare una proposta, sono lì per lavorare ed essere giudicati. Da un punto di vista canonistico questa semplificazione è una cosa che il cardinale Pompedda chiedeva già negli Anni 90: in molte circostanze i fedeli hanno la perfetta coscienza della nullità del loro matrimonio e questa coscienza non può essere giuridicamente irrilevante per la Chiesa. Vedo però complicazione tutta italiana, che è quella concordataria: l’annullamento infatti annulla gli effetti civili del matrimonio, quindi restano gli obblighi verso i figli ma cessano quelli verso il coniuge. Si rischia di produrre un’ingiustizia, che colpirebbe soprattutto le donne.
Lei si aspetta una rivoluzione dal Sinodo?
Non lo so. Intanto così è troppo breve, sarà come giocare una partita di calcio in 6 minuti anziché in 90: non vince il migliore, vince chi fa gol prima. Se il Sinodo continuerà a ragionare dal punto di vista della teologia morale le strade sono solo due, il rigorismo o il lassismo. Il Sinodo allora sarà un battibecco morale o un virtuosismo canonistico. L’alternativa vera è partire dall’Eucaristia – che cura tutto – e dall’annuncio del Regno che illumina tutto – il celibato, il matrimonio, il matrimonio naufragato e quello nullo – e illuminando giudica e perdona. Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci.
Che conseguenze ci sarebbero sul piano sociale, al di fuori del recinto della cattolicità?
Sarebbe tutto diverso, perché se la Chiesa si sgancia dal discorso sui fini e sull’autorità anche la politica avrà un’altra libertà. Oggi se uno è contrario al matrimonio fra omosessuali è per forza omofobo e se è favorevole alle unioni civili è per forza anticattolico. Non ha senso. Prendiamo il patto civile: vogliamo immaginare cosa vuol dire una società in cui una unione civile fallisce senza tutele per la parte debole? O pensiamo che le unioni civili resisteranno più dei matrimoni? No, si squaglieranno tanto quanto i matrimoni, uno su quattro, e in quel momento non conterà nulla il fatto che io abbia giocato l’unica cosa che conta nella vita, il tempo, nella compagnia di un altro? In una società di relazioni squagliate chi avrà la peggio? Le donne, che saranno condannate a una subalternità vecchia come il mondo.
Nel suo libro lei scrive che la Chiesa dovrebbe avere la capacità di dire «che il dono e il perdono sono tutto ciò che consente di vivere un amore senza fine o la fine dell’amore». Come si può pensare il “ricominciare” in un modo più pregnante di una banale “seconda chance”?
La cosa più mirabolante dei divorziati risposati e in quanti chiedono la nullità di un matrimonio è proprio il fatto che una persona che ha fatto un’esperienza umanamente straziante, di fallimento, voglia ancora un rapporto sacramentale e organico con la comunità ecclesiale. La sapienza cristiana ha una chiave per questo. I padri del deserto raccontano di un viandante che va al monastero e chiede “ma voi cosa fate?”. “Cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo”, rispondono quelli. Questa è la chiave della sapienza cristiana. Il cristianesimo non è solo camminare ma è camminare, cadere, rialzarsi, camminare cadere, rialzarsi, camminare. La chiesa avrebbe molto da dire sul perdono, non solo quando uno ha fatto un’esperienza di rottura che si risolve in una nuova relazione, ma nel momento stesso in cui si consuma la rottura. Il perdono non sta alla fine del matrimonio per farne un altro, ma sta dentro al matrimonio. Il matrimonio non è un “tenere duro” nella speranza che non succeda niente: è sapere che qualcosa succederà, ma che si è capaci di perdonare. La Chiesa deve tornare a dire che il fallimento della vita coniugale deriva dalla carenza di perdono e che quando il matrimonio o l’amore finisce c’è bisogno di un surplus di perdono. In quest’ottica il femminicidio, che spesso nasce dall’incapacità di accettare il “torto” dell’abbandono, è anche un problema pastorale.
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