All'inizio del XX secolo, Norberto Bobbio parlava della nostra come dell'epoca dei diritti. Cinquant'anni prima, Simone Weil aveva già messo in guardia dall'idolatria dei "diritti" dell'uomo. Oggi, sempre nuovi diritti che dall'uomo sembrano persino presindere si presentano sulla scena e la rivendicano. Con quale fondamento? È il tempo delle pretese senza fine, ma dove si siano nascoste "libertà e responsabilità", per secoli pilastri della tradizione liberale, pochi se lo domandano.
Ne parliamo con Carlo Lottieri, storico e filosofo, professore all'Università di Siena, che ha da poco pubblicato un libro molto caustico su questa involuzione verso quelli che nella sua lettura risultano essere diritti senza fondamento.
Diritti e/o libertà
Lei contrappone diritti a libertà. Perché chiedere più diritti significherebbe meno libertà? Non è vero l'opposto? Il suo ultimo lavoro, Ogni diritto in più è una libertà in meno ribalta la prospettiva…
In questo mio breve scritto cerco di mostrare come il moltiplicarsi di “diritti a” comporti di necessità una restrizione delle libertà individuali, tradizionalmente indicati anche come “diritti di”. Ogni diritto sostanziale o sociale esige meccanismi ridistributivi e regolamentari che riducono lo spazio d’azione del singolo e delle comunità volontarie. È del tutto evidente, ad esempio, che se lo Stato afferma l’istruzione quale diritto, in breve tempo esso finirà per affermare pure che l’istruzione diventa un dovere, che tutti sono obbligati a finanziarla e che si deve intendere per istruzione un certo tipo di conoscenza, imposta a tutti dai programmi ministeriali. E a quel punto la libertà di cultura non esiste più.
Il moltiplicarsi di diritti sostanziali (salute, reddito, educazione, assistenza ecc.) garantiti dal potere pubblico implica non soltanto che ogni risorsa economica diventi disponibile (perché la proprietà muta definitivamente il proprio statuto), ma anche che una larga quota dei redditi prodotti sia gestita dall’apparato politico-burocratico.
"Diritti" al plurale e diritto al singolare: un altro nodo critico da lei affrontato è quello dei diritti senza fondamento e, in sostanza, dell'autorità senza fondamento. Dove troveremmo questo fondamento? Nella comunità? Nella proprietà? Nella relazione? Non corriamo il rischio – ma è davvero un rischio? – di tornare al diritto naturale?
Ogni riflessione sui diritti esige, a mio giudizio, una riflessione sul rapporto tra diritto e giustizia, e parlare di giustizia significa introdurre quello “scarto” che, in un modo o nell’altro, ci conduce nell’ambito del diritto naturale. È vero che il Novecento ha visto affermarsi una visione del tutto tecnicizzata e positivista del diritto, ma le esigenze di ordine morale non sono sopprimibili: sono un tutt’uno con l’esperienza umana.
Nella mia personale visione del diritto l’ancoraggio è dato dall’altro: dalla sua inviolabilità. Io leggo la tradizione giusnaturalistica dei diritti naturali a partire dall’intuizione morale che l’altro ci trascende e che, di conseguenza, non possiamo “governarlo”. Non possiamo usare violenza a un innocente: non possiamo costringerlo a fare quanto egli non vorrebbe fare, né disporre di lui e del suo lavoro.
Lo Stato aggressore
Lei dichiara una prospettiva apertamente libertaria. Che cosa significa? Perché si tratterebbe di un'opzione essenziale per rifondare le pratiche di libertà sociale?
Come ho cercato di mostrare, in sostanza il mio essere libertario consiste semplicemente nello sforzo di restare fedele alla tradizione giuridica, là dove afferma che nessuna violenza è legittima a danno di chi non aggredito nessuno. L’avvento dello Stato moderno ha progressivamente dissolto tutto questo, legittimando taluni soggetti privati – nel momento in cui conquistano il Palazzo d’Inverno – a minacciare, monopolizzare la forza, sottrarre risorse, impedire l’autodifesa, negare l’autogoverno.
In quanto entità essenzialmente antigiuridica, lo Stato dissolve ogni possibilità di relazioni basate sul diritto e, quindi, sul rispetto e sulla cooperazione volontaria.
Lo Stato. Lei fa cenno allo Stato terapeutico, un concetto caro per esempio al buon Thomas Szasz. Oggi però questo Stato terapeutico si declina mascherando le proprie azioni dietro il paravento delle libertà, non solo dei diritti. Voglio dire – lo abbiamo visto con i dibattiti sulle droghe, lo vediamo con la tematica emergente del gambling diffuso, statale e parastatale: l'antiproibizionismo si declina in forme di monopolio di Stato. Vuoi consumare droga legalmente? Lo Stato è titolato a vendertela, al massimo dà in concessione a privati. Idem per l'azzardo legale. Antiproibizionismo e riserva legale di Stato vanno a braccietto… E qui tocchiamo un nodo critico: costrizione o diritto? Statalismo o libertà?
Su questo punto resto molto tomista: ci sono tanti vizi che non si configurano come crimini, e che quindi non vanno perseguiti. È curioso che talvolta la libertà debba essere evocata con una doppia negazione (anti-proibizionismo), come se la proibizione fosse la normalità e la libertà un’eccezione. Ma proprio per questo ritengo assurdo che lo Stato usi i soldi dei contribuenti – compresi quelli giustamente molto avversi ai comportamenti autolesionistici, viziosi, autodistruttivi – per finanziare in un modo o nell’altro queste attività.
Asservire i corpi intermedi
Quando parliamo di libertà pensiamo all'individuo. E i corpi intermedi? Non crede che le élites dei corpi intermedi, penso soprattutto ai dirigenti del Terzo Settore più che ai loro – chiamiamoli così – militanti attivi, siano oramai un aggregato parastatale, incapace di uscire da una logica che, più che assistenzialistica, a me pare "devozionista", supina dinanzi allo Stato?
I cosiddetti “corpi intermedi” sono essenziali dal momento che l’uomo vive sempre in relazioni: è zoon politikón. Una parte rilevante di queste relazioni è di natura più “fredda”, come gli scambi che intrattengono persone che non si conoscono o comunque vivono esistente distanti (faceva cenno a queste relazioni, in fondo, Voltaire nel noto passo sulla borsa londinese, quale luogo di cooperazione tra credenti in fedi assai diverse), ma altre relazioni sono invece più “calde”, affettive, iterate, faccia-a-faccia.
Purtroppo, però, quello che Lei dice sulle élite del cosiddetto Terzo settore è vero perché nella fase più matura dello statalismo tutti siamo in qualche modo statizzati. La formula crony capitalism (capitalismo clientelare) indica, nel campo del mercato, quella malattia che Lei denuncia nel campo del volontariato o comunque dell’imprenditoria sociale.
Capitalismo infinito?
Sul finale di Ogni diritto in più è una libertà in meno (Il Giornale, 2016), lei accenna a un'antropologia del limite. Eppure lei è per il libero mercato. Non le pare una contraddizione? Perché dovrei autolimitare la compravendita di cornee, feti, frammenti di corpo umano se il soggetto è disposto a contrattualizzare questo scambio? Mi pare – io sono d'accordo con lei sulla questione del limite – che qui si apra una bella prospettiva di riflessione, quella sulle "forze", sul peso specifico. Forse che i "diritti" siano proprio l'orizzonte distopico che concepisce una vita senza forze, di pure e vuote forme?
Credo che il limite fondamentale, sul piano giuridico, sia la proprietà. Il mercato ai miei occhi è l’istituzione che emerge naturalmente quando le persone rispettano la proprietà altrui e mantengono gli impegni sottoscritti. La proprietà definisce non tanto quello che posso fare (il “mio”), ma soprattutto definisce quello che non posso fare (il “tuo”, il “suo”, il “loro”ecc.). A questo punto è chiaro che quando entriamo nel campo della bioetica ogni riflessione generica lascia il tempo che trova. Chiedersi ad esempio se possiamo vendere i nostri organi è una domanda mal posta, se si considera che è un organo il rene, ma anche il cervello. Certo io vedo questo: che sotto certe condizioni alcuni organi (il rene) o pezzi di corpo (a partire dal sangue) si possono donare, ma vedo anche che non si possono vendere per una legge di Stato lo impedisce. A parte il persistere di tabù antimonetari (una cosa diventa malvagia se è toccata dal soldo…), mi chiedo, soprattutto, chi possieda davvero quel corpo. Non credo che si possa dire che è di chi può donare un suo organo, ma non può venderlo. È abbastanza chiaro che il super-proprietario di ogni cosa e di ogni organo è lo Stato.
Recentemente, sulle pagine del Foglio, in un saggio pubblicato per esteso sulla rivista Nuova di Storia Contemporanea, Alberto Mingardi perorava la causa "liberista" sostenendo – semplifico – che il problema non è il Golem liberista, ma il Leviatano della politica. Ossia una mediazione che non media ma, come direbbero i buoni e dimenticati Gaetano Mosca e Christopher Lasch, produce classi parassitarie. In fondo, Weber lo aveva detto: la gabbia d'acciaio statalista si regge o sugli eserciti o sulla burokratia. Lei è d'accordo con questa lettura? Davvero le forze economiche delle corporation sono così fragili da soccombere dinanzi a minuscoli funzionari di quartiere?
Una domanda come questa richiederebbe una risposta molto articolata: proverò comunque a essere conciso.
La mia è che sia sbagliata la tesi prevalente, che vede la scena sociale occupata da tre poteri: quello politico, quello culturale e quello economico. Per me il potere è quello politico, mentre risorse e conoscenza non sono poteri in senso stretto. È ovvio che le grandi imprese o le potenti centrali ideologiche (le chiese, ad esempio) possono condizionare anche il potere politico, ma ottengono potere vero – perché potere politico – solo indirettamente.
L’esistenza del monopolio weberiano della violenza fa sì che chi è ricco o anche molto influente è in grado di favorire leggi che piegano molti alla loro volontà. Perfino un filosofo assai mainstream e tutt’altro che libertario come Michael Walzer ha ammesso, che "Apple non può obbligarmi a comprare un prodotto. Lo Stato, invece, può incarcerarmi". È un punto fondamentale che deve spingere a ridurre l’invadenza del potere statale nella nostra vita anche al fine di impedire quella che –in letteratura economica – è chiamata la “cattura del regolatore”.
L'ospite
Allievo di Alberto Caracciolo, Carlo Lottieri (Brescia, 1960) insegna Filosofia della politica all'Università di Siena e Filosofia delle scienze sociali alla Facoltà di Teologia di Lugano, in Svizzera. Tra i fondatori del think tank Istituto Bruno Leoni, dove dirige il dipartimento Teoria Politica i suoi studi si concentrano in particolare sulla tradizione liberale, sul rapporto tra diritto naturale classico e diritto naturale moderno e sul realismo politico. Fra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Denaro e comunità (Guida, 2000) e Credere nello Stato? Teologia politica e dissimulazione da Filippo il Bello a WikiLeaks (Rubbettino, 2011).
In copertina: Una donna manifesta per Julian Assange fuori dall'Ambasciata dell'Ecuador, a Londra, nel giugno del 2012 (Photo: Oli Scarff/Getty Images)
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