Bullismo

Tredici, mi suicido ma prima ti dico il perché

di Anna Spena

La serie televisiva di Netflix è stata acclamata dalla critica e dai giovani ma demonizzata da genitori e psicologi perché "istigherebbe al suicidio". Vita.it intervista Daniela Cardini, docente di Teoria e tecnica del linguaggio televisivo e di Format e serie tv all’Università Iulm di Milano, che spiega: «Il problema non è la televisione, che denuncia i fatti e non ha il compito di dare soluzioni, ma l’enorme baratro che separa gli adulti dagli adolescenti»

Tredici. Titolo originale thirteen reasons why è una serie televisiva creata da Brian Yorkey. La prima stagione ha esordito il 31 marzo 2017 sul servizio di video on demand Netflix. Tredici, insieme al titolo della serie, sono anche le ragioni che hanno portato l’adolescente Hannah Baker, protagonista del teen drama, a suicidarsi.

Prima di morire Hannah incide delle cassette audio che farà poi recapitare ad alcuni amici che, come si evince dalla serie, sono i responsabili che l’avrebbero portata a compire il gesto estremo. Un viaggio a ritroso nella vita dell’adolescente che è stato da un lato acclamato dalla critica, dall’altro demonizzato da gruppi di genitori e psicologi.

Vita.it intervista Daniela Cardini docente di Teoria e tecnica del linguaggio televisivo e di Format e serie tv all’Università Iulm di Milano, che tiene su Vita magazine la rubrica “Long Tv. Le serie televisive viste da vicino”. «Quando si fa luce su “qualcosa di scomodo” la colpa è sempre della televisione», dice Daniela Cardini, «I media sono un mezzo di denuncia e non hanno il compito di dare soluzioni. Il problema vero è che c’è una generazione che non stiamo capendo per niente e su cui non abbiamo controllo».

Tredici, che pensa di questa serie televisiva?
Io guardo tantissime serie televisive. Ma non mi capitava da tanto di esserne così coinvolta ed entrarci così tanto dentro: faccio fatica a staccarmi da quell’universo lì. Tredici piace agli adulti e agli adolescenti. È una serie che ridiscute tutto il genere del teen drama focalizzando l’attenzione su questioni molto serie. Il teen drama ha la tendenza a raccontare le problematiche dell’età giovanile. Ma nessuno, fino ad oggi, aveva affrontato temi come il suicidio e il bullismo.

Qual è il segreto del successo di Tredici?
L’immersione totale nella realtà. Siamo in una scuola normale, non c’è nessuna adolescenza dorata o ruoli a cui si vorrebbe aspirare. La rappresentazione dei personaggi è funzionale alla narrazione: hanno imperfezioni, non sono bellissimi e non sono caratterizzati dall’aspetto estetico, sono ragazzi normali. La scelta fatta dalla produzione è stata interessante. Inizialmente il personaggio della protagonista Hannah Beker doveva essere interpretato dall’attrice Selena Gomez, e questo avrebbe sicuramente creato delle aspettative diverse. Poi insieme alla normalità dei ragazzi, anche quella delle loro famiglie. Non ci sono casi borderline. Con lo spettatore si fa un patto di aderenza alla realtà. I ragazzi si ubriacano, fanno sesso, organizzano party. Quello che secondo me è veramente intrigante e coinvolgente è la credibilità di quello che vedi.

Anche il suicidio della protagonista?
Quello è impressionante ma possibile.

Tante le polemiche che ha suscitato la serie, tra tutte l’istigazione al suicidio, che ne pensa?
La reazione negativa alle serie da parte del mondo adulto è determinata ancora una volta dalla paura. Quello che si vede, quello che si rappresenta è possibile: le persone sono molto preoccupate per i loro figli ma, allo stesso tempo, assolutamente incapaci o impossibilitati a trovare gli strumenti per intervenire.
Le figure adulte che si vedono in Tredici sono totalmente incapaci di gestire certe relazione e problematiche della vita come ad esempio il bullismo o la violenza che nasce nelle relazioni di questi ragazzi. Quello degli adolescenti e quello degli adulti sono due mondi che entrano in frizione tra loro e non riescono a procedere in una direzione comune.

Perciò Tredici non piace ad un certo pubblico
Quando qualcosa ci fa paura lo censuriamo. In Nuova Zelanda l’hanno addirittura vietato ai minori di 18 anni.

Hannah si suicida, ma prima di farlo lascia un messaggio per altri ragazzi…
Su quell’espediente narrativo possiamo discutere; è vero che la messa in scena del suicidio può sembrare artefatta, ma dal punto di vista dell’andamento delle puntate, questo primo pretesto, ad un certo punto, lo spettatore non lo considera più. Perché quello che importa non è come lei si suicida ma perché. A diventare fondamentale è la rappresentazione di un mondo. Il pretesto narrativo alla fine serve solo per raccontare il disagio e la fatica della costruzione di relazioni nella nostra società.

Il suicidio e il racconto del suicidio…
Più di tutto il racconto dell’impatto che un gesto così estremo può avere sulle persone che si lasciano. Qui si entra su un terreno pericoloso: la dimensione fragile dell’adolescenza, il voler lasciare un segno di sé.

Perché è così forte questo desiderio?
Il problema dell’adolescente è che non è riconosciuto dal punto di vista sociale. Nel momento in cui tu ti uccidi vuoi scaricare questa colpa o condividerla o con gli altri: è l’ eredità che stai lasciando.

Il ruolo della televisione qual è?
Quando si fa luce su “qualcosa di scomodo” la colpa è sempre della televisione. Il mezzo non è mai considerato neutro. Ma le responsabilità devono andare al di là del mezzo. La televisione, le serie televisive, non istigano al suicidio. Direi invece che la tv mette a tema in maniera realistica il problema grosso del bullismo con il quale gli adulti non sono in grado di avere a che fare. La serie ti dice che per adesso non ci sono armi: da un lato agisce sulla voglia dell’adolescente di affermare se stesso, paradossalmente di esserci nel momento in cui non esiste più, dall’altra parte, invece, il mondo adulto vede questi problemi ma non li capisce e non sa come reagire o comportarsi. La grande intelligenza di questa serie sta nel far vedere che questi ragazzi vivono a volte situazioni violente senza riconoscerle come tali e quindi fanno anche fatica a parlarne fino a quando il limite non è oltrepassato. Esempio: nel momento in cui una delle ragazzine subisce violenza sessuale lei non se ne accorge ed è un altro che deve dirle "guarda che ti hanno violentato". Tredici è una serie densissima. E dentro ci sono molte cose che sono disturbanti per questo può essere fastidiosa. È vischiosa. Entri faticosamente ma poi rimani lì a riflettere.

Quello degli adolescenti è un mondo difficile…
Difficilissimo. Per gli adulti è incontrollabile. Chi è vittima di bullismo non ne parla, ma i ragazzi in generale parlano poco con gli adulti. Questo è il quadro di una sconfitta assoluta.

Tredici quindi lavora sui tabu
Veicola un messaggio di estrema difficoltà e di pericolo; racconta di un tentativo di affermazione di identità attraverso un gesto che è difficile. Raccontare il suicidio da parte di una ragazzina è un tabu pazzesco. E non c’è un modo realistico, credibile ed efficace per rappresentare il suicidio che non sia urtante. Ma se vuoi parlare di bullismo come fai a raccontarlo in maniera realistica senza entrare nella dimensione in prima persona?

Guardare Tredici, si o no?
Io dico sì. Nel senso che secondo me è dal punto di vista complessivo è un ottimo prodotto. Per me i media aiutano a capire quello che sta succedendo attorno a noi. Ma attenzione, i media – tutti – sono un mezzo di denuncia e non hanno il compito di dare soluzioni. Il problema vero è che c’è una generazione che non stiamo capendo per niente e su cui non abbiamo controllo. Ma la distanza tra le generazioni c’è sempre stata, non è negandola che la risolviamo.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.