Welfare

Droga & carcere Il punitore cerca un alibi

Una comunità in un ex carcere: è l’idea lanciata dal ministro Castelli per i detenuti tossicodipendenti. Un esperto spiega perché è solo un alibi

di Riccardo C. Gatti

Nel progressivo e assurdo disinteresse generale sull?argomento, ogni tanto, qualche notizia sul tema ?droga? fa ancora il botto. Così è stato per la notizia della comunità per tossicodipendenti detenuti che il ministero della Giustizia vorrebbe istituire in un carcere dismesso vicino a Castelfranco, in Emilia Romagna. Ma servono progetti alternativi alla detenzione per tossicomani che commettono reati?
Teoricamente il nostro sistema penale dovrebbe avere una funzione riabilitativa. Tutti, però, sanno che non è così. Eppure, anziché costruire qualcosa di diverso, si insiste nel lasciare, sostanzialmente, il sistema penale così com?è. Attorno al sistema della pena ruotano una serie indefinibile di progetti di riabilitazione e di reinserimento. Alcuni buoni, altri meno, altri ancora del tutto superflui.
Per la persona che ha commesso reati ed è tossicodipendente, almeno in teoria, ci sono una serie di possibilità in più: una maggiore attenzione rispetto a chi tossicomane non è. è giusto? Non è giusto? Difficile dirlo; difficile spiegarne il motivo. Probabilmente ci si è accorti che molti tossicomani finivano in carcere oppure (la differenza non è da poco) che molte persone che commettevano reati erano tossicomani. Forse la sensazione era che fosse ingiusto punire qualcuno in quanto tossicodipendente e allora ?
Ci potrebbero essere anche altre chiavi di lettura: chi commette reati e pure si droga è meno abile di altri nel farla franca e, quindi, perché prendersela proprio con i più deboli? Ancora, il mondo scientifico considera la tossicomania una malattia: come è possibile punire qualcuno per le conseguenze di una malattia senza, almeno, garantirgli una possibilità di cura? Senza dubbio, nel momento in cui si pensano progetti dedicati alla riabilitazione di tossicomani in regime di restrizione della libertà personale, la tentazione di prendere due (o tre) piccioni con una fava è molto forte: fuori dal carcere la persona costa allo Stato molto meno che dentro; se si interviene con processi terapeutici o riabilitativi, magari non delinque più o delinque di meno; una volta riabilitata o guarita, magari, riesce a fare una vita migliore. In poche parole: se va bene, tutti ci guadagnano. Se va male, ci si perde di meno.
L?intervento su chi usa droghe è poi pieno di paradossi. Si incomincia già con le sanzioni amministrative: «o vai al Sert o ti ritiro la patente» è una situazione abbastanza tipica che si trovano a gestire le Prefetture. Sert e Prefetto diventano la stessa cosa: un inghippo da evitare, da starne fuori. Così anche le situazioni gravemente a rischio vengono nascoste. Chi non ha un supporto familiare o legale e magari ha una situazione complessa perché è tossicomane e «non riesce a smettere» avrà la patente ritirata, chi è messo meglio se la caverà.
Paradossi ce ne sono anche nel reinserimento lavorativo. Chi ne avrebbe più bisogno è chi è inserito in circuiti criminali. è un?occasione per uscirne ma le organizzazioni criminali pagano molto meglio di una borsa lavoro o di un lavoro di ripiego. Così, non di rado, chi ha più risorse personali rimane nel circuito in cui era: una legge di mercato. Altri paradossi? Ho conosciuto diverse persone che preferivano rimanere in carcere piuttosto che accedere a una comunità terapeutica: spiegavano la scelta con un desiderio di maggiore libertà…
Non ho dubbi, per altro, sul fatto che ci sia chi, per uscire dal carcere, ha interesse a farsi riconoscere come tossicomane anche quando non lo è. Se ci riesce, e qui si confermano i paradossi, ha più possibilità di qualunque altro nel dimostrare al giudice che si sta riabilitando: non avrà problemi nell?astenersi.
Per questi motivi ho sempre avuto un certa innata diffidenza rispetto al risultato di tutte quelle azioni che definiscono collaborazioni e integrazioni tra sistemi di controllo e sistemi terapeutico-riabilitativi. Ritengo si tratti di relazioni impossibili a meno che uno dei due sistemi non accetti di trasformarsi. Poiché, sino a oggi, il sistema penale non ha dato, se non in alcuni casi, segni di trasformazione, ritengo che chi si occupa di educazione, terapia, riabilitazione debba, a vantaggio dell?interazione, accettare compromessi altrimenti inaccettabili. L?operatore di un Sert, ad esempio, può trovarsi nella condizione di essere contemporaneamente terapeuta e controllore per conto del sistema penale. Tenuta ferma la posizione di controllore, è chiaro che il rapporto terapeutico non potrà che soffrirne.
Se esaminiamo la situazione da un punto di vista del singolo individuo che viene a contatto con possibilità alternative e con altre persone, professionalmente e umanamente preparate a una interazione terapeutica, educativa o riabilitativa, la risposta è positiva ma con alcune riserve. Propongo alcune osservazioni:
1. Nel caso di una vera tossicodipendenza ci troviamo di fronte a una patologia: la situazione di restrizione della libertà può anche indurre una remissione del sintomo ma non è, di per sé, terapeutica e non può indurre guarigione.
2. La restrizione della libertà non è solo quella definita dal sistema penale; l?accettare l?inserimento in una comunità o un programma di un Sert per evitare il carcere sono comunque situazioni limitanti la libertà.
3. Spesso alla tossicomania (o all?alcolismo) vediamo associati una serie di disturbi psichici che, a volte, sono la conseguenza ma, altre volte, sono una concausa di tossicomania.
4. Confondere la remissione del sintomo prodotta da una situazione per definizione protetta con il miglioramento della situazione patologica è un errore che si paga non appena la contenzione finisce.
5. Esistono situazioni patologiche curabili e altre non curabili; esistono concause sociali e culturali affrontabili e altre non affrontabili; in ogni caso non esiste, in questo campo, processo terapeutico, rieducativo o riabilitativo che possa prescindere dalle reali intenzioni di chi vi si sottopone.
6. Se non esiste possibilità di scelta del processo terapeutico, educativo o riabilitativo e se non esiste un processo di valutazione (anche diagnostica e prognostica) riguardo al percorso da compiere, la riuscita è casuale.
7. Qualunque processo terapeutico, educativo o riabilitativo vede il suo risultato come sommatoria del lavoro di chi vi si sottopone e di chi lo conduce.
8. Quando un progetto fallisce non è possibile valutare che il responsabile del fallimento sia esclusivamente chi ha scelto di sottoporsi al processo stesso.
9. Se chi conduce il processo è incaricato anche di controllo sociale è molto facile che il cattivo esito di un intervento venga addossato esclusivamente alla ?non volontà? del trattato che, in campo penale, finisce per pagarne le conseguenze.
10. Non è necessariamente vero che qualunque cosa sia meglio del carcere.
Detto ciò, nel momento in cui si propone la sperimentazione di un progetto di alternativa al carcere non si può che sperare che possa individualmente giovare a chi vi partecipa. Se, tuttavia, il progetto contribuisce a mantenere ristagnante una situazione del sistema penale (che non adempie alle funzioni rieducative e riabilitative per cui viene erogata una pena) allora questa ?riduzione del danno? potrebbe avere, nel complesso, effetti negativi molto più importanti di quanto potrebbe apparire a una analisi superficiale.
di Riccardo Gatti responsabile Sert Asl Città di Milano

Per capirne di più di Riccardo Bonacina

Quanto è grave la situazione dei tossicodipendenti in carcere?
È gravissima. Si pensi che su 57mila detenuti (al 30 novembre2001), i tossicodipendenti sono poco meno di 20mila. Per i tossicodipendenti con pene non gravi sono già da tempo previste forme di pena alternative in funzione della loro riabilitazione e reinserimento. Ma gli ordinamenti sono di difficile applicazione sia perché spesso i detenuti tossicodipendenti cumulano diversi piccoli reati per una pena complessiva superiore ai quattro anni, sia per l?esasperante lentezza dell?esame delle domande.

Perché tanto clamore per la proposta del ministro Castelli?
Per tre motivi. Primo: perché in Italia quando si parla di droga e di recupero non si discute mai nel merito ma ci si scontra in modo ideologico. Secondo: perché si diceva che la nuova esperienza sarebbe stata appaltata, nella gestione, a San Patrignano. Ed è indubbio che questo governo dia l?impressione di aver scelto quest?ultimo come interlocutore privilegiato in tema di droga. Terzo: la legge 230/99 ha trasferito, dal 2000, le funzioni svolte dall?amministrazione penitenziaria in materia di prevenzione e cura dei detenuti tossicodipendenti al Servizio sanitario nazionale. È quindi sembrato uno sproposito parlare di gestione della casa a San Patrignano.

Esistono altre esperienze simili?
Da 12 anni c?è l?esperienza della Casa circondariale a custodia attenuata Gozzini, più nota come Solliccianino. Si tratta di un carcere che mira al pieno reinserimento, attraverso un piano terapeutico, di soggetti detenuti giovani (sino a 40 anni) con problemi di tossicodipendenza. Dal ?92 a Le Vallette di Torino è attivo Programma Arcobaleno di cui hanno già usufruito, con buona percentuale di reinserimenti, oltre 750 detenuti tossicodipendenti. Analogo programma nel carcere di Eboli, da tre anni. E il ministero della Giustizia nel 2000 ha stanziato 500mila euro per Ercole, programma d?inserimento lavorativo ?esterno? di detenuti tossicodipendenti.

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