Tom Barbitta

Rise Against Hunger, quando la lotta alla fame è una lotta di libertà

di Ottavia Spaggiari

Intervista a Tom Barbitta, Direttore Marketing di Rise Against Hunger. Tra le principali organizzazioni impegnate nella lotta alla fame, Rise Against Hunger ha fatto della mobilitazione di centinaia di migliaia di volontari in giro per il mondo, il fulcro della propria battaglia contro la denutrizione

“La fame non è solo un problema di salute fisica. Ti impedisce di scegliere, ti costringe a scendere ad ogni compromesso, ti toglie la libertà. Dare alle persone l’accesso al cibo, significa dare loro la possibilità di riprendere il controllo sulla propria vita.” Tom Barbitta non ha dubbi. La lotta alla fame è il problema più importante che ci troviamo ad affrontare: il primo tassello fondamentale per gestire tutte le altre sfide sociali. È lui il Direttore Marketing di Rise Against Hunger, l’organizzazione che ha cambiato nome da pochissimo (si chiamava Stop Hunger Now) e che dal 1998 lavora per raggiungere un unico obiettivo: mettere la parola fine alla fame nel mondo, mobilitando centinaia di migliaia di volontari. Oggi è presente in 20 città negli Stati Uniti, in Sudafrica, Malesia, India, Filippine, Perù e in Italia dove la sede ufficiale si trova a Bologna.

Com’è cambiata la battaglia contro la fame in questi 19 anni?

Nel mondo, ogni quattro secondi una persona muore di fame. La denutrizione uccide più di Hiv, tubercolosi e malaria messe insieme. È un problema così grave ma anche così presente e costante che, anche se è sotto i nostri occhi, rischiamo di non vederlo più. Fortunatamente la sensibilizzazione sull’argomento è cresciuta moltissimo negli ultimi anni. Una spinta importante è stata data anche dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibili, che si propongono di eliminare la fame entro il 2030. Oggi, 2.5 milioni di persone in più rispetto a due anni fa, hanno accesso al cibo necessario per condurre una vita sana. La nostra associazione è nata in Nord Carolina, all’inizio raccoglievamo dai campi i prodotti che gli agricoltori lasciavano indietro, soprattutto patate dolci che magari erano ammaccate o il cui aspetto non rispettava gli standard estetici accettati dai distributori. Si trattava davvero di fare il “lavoro sporco”. Da allora le cose sono cambiate moltissimo. Da quei primi inizi abbiamo distribuito più di 320 milioni di pasti in oltre 74 Paesi, sviluppando un sistema logistico molto complesso ed efficiente e mobilitando un esercito di volontari, nell’ultimo anno sono stati 376mila.

Rispetto al 1998, oggi ci sono nuove sfide legate in modo intrinseco alla lotta alla fame. Prima tra tutte il cambiamento climatico. Che ruolo gioca il climate change in questa battaglia?

Sicuramente centrale. La pressione sull’accesso e la gestione delle risorse è aumentata moltissimo. Le siccità e le alluvioni hanno conseguenze devastanti sulla capacità di coltivazione soprattutto per i piccoli agricoltori e si traducono spesso in un aumento dei prezzi che diventano ancora più inaccessibili per le fasce più povere della popolazione. Le immagini dei bambini costretti a mangiare le mud-pie, torte di acqua e fango, sono la rappresentazione più efficace delle conseguenze del climate change. Eppure, il contraltare di questa situazione drammatica è che il cambiamento climatico ci costringe ancora una volta a parlare della fame e a trovare risposte più strutturate, trasversali e globali.

Quali sono i risultati più importanti che avete ottenuto in questi anni di lavoro?

Negli anni siamo riusciti a costruire un modello in grado di mobilitare centinaia di migliaia di volontari, distribuendo milioni di pasti in giro per il mondo. Il nostro asset più interessante e più innovativo è il programma di confezionamento pasti. Si tratta di eventi in cui i volontari assemblano gli ingredienti per produrre pacchetti altamente nutrienti. Di solito nei pasti sono inclusi riso, soia, verdure essiccate, vitamine e sali minerali. In poche ore riusciamo a produrre migliaia di razioni di cibo. A questi eventi prendono parte aziende, scuole e singoli volontari. È un tipo di volontariato che dà molta soddisfazione perché l’impatto di quello che fai è immediato. Il 75% dei pasti che confezioniamo sono distribuiti a supporto dei programmi di scolarizzazione e questo per incentivare le famiglie a concedere ai propri figli di frequentare la scuola. O negli orfanotrofi, che rappresentano l’unica speranza per i bambini privi di ogni forma di tutela. Negli anni poi abbiamo sviluppato un sistema di misurazione dell’impatto. Le persone che rientrano nel nostro programma alimentare sono monitorate costantemente. Misuriamo i progressi che fanno, la crescita, il peso, la massa corporea, per essere sicuri che quello che facciamo funzioni davvero. Nel 2016 abbiamo nutrito oltre 1 milione di persone, il 72% sono giovani sotto i 35 anni.

Cosa vi ha portato a cambiare il nome della vostra associazione?

Per noi questo è un momento molto interessante. Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibili del 2015 per noi hanno significato un cambiamento di marcia, da qui la decisione di fare un re-branding. È stata una scelta non solo “cosmetica” ma di strategia, che simboleggia la necessità di creare una piattaforma che permetta a tutta la comunità di svolgere un ruolo attivo nella lotta alla fame. Oltre alla distribuzione alimentare, abbiamo attivato dei progetti di microcredito e formazione a lungo termine, per offrire agli agricoltori strumenti amministrativi e di contabilità. Se diamo alle persone l’opportunità di diventare autonome creiamo dei super-eroi locali, saranno loro i primi a portare avanti la lotta contro la fame.

Lei ha lavorato per grandi multinazionali dell’alimentare e passato la maggior parte della carriera nel mondo corporate. Che ruolo può giocare il settore privato nella lotta alla fame?

Enorme e noi lo vediamo tutti i giorni. I nostri partner corporate sono fondamentali, la risposta alle iniziative di volontariato aziendali è straordinaria, lo dimostra la quantità di persone coinvolte, dagli amministratori delegati ai dipendenti. Ormai l’impegno delle aziende nelle questioni sociali non è solo relegato alla CSR. Siamo davanti a un cambio di prospettiva. I millennials entrati nel mondo del lavoro da poco vogliono lavorare per aziende attente, capaci di creare un impatto positivo. L’impegno sociale riguarda sempre più aspetti aziendali, da qui l’enorme diffusione e successo del “cause marketing”. La strategia per rispondere a questa sfida deve essere globale e il settore privato non può essere lasciato indietro.

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