Pietro Leemann si siede a un tavolo del suo bistrot alle due e un quarto di un giorno infrasettimanale, una sola piccola macchia rosso rubino sulla giacca da chef. Ci sono ancora diverse persone sedute ai tavoli, lo salutano con il cucchiaino del dolce o del caffè a mezz’aria, nell’ultimo scampolo della pausa pranzo. Lui sorride, saluta, scambia due parole. «È profondamente ingiusto che il cibo che fa male costi poco e il cibo che fa bene costi tanto. Il cibo che fa bene deve essere come le medicine, disponibile a tutti. Io penso che avverrà», afferma. «Oggi a livello di cibo nessuno paga le conseguenze di una cattiva alimentazione tranne chi le subisce: se una persona mangia male, si ammala e paga le conseguenze, ma l’industria che le ha venduto quel cibo non paga nulla, non ha responsabilità. Ma un venditore di hamburger – come uno di sigarette – dovranno assumersi delle responsabilità, lo Stato presto dirà “signori miei, non ce la faccio più con la sanità, dovete fare la vostra parte, o mi aiutate a curare le persone che voi avete contribuito a far ammalare o cambiate". Secondo me manca molto poco». L'ethical food è la visione del futuro, anche per il Terzo Settore: mense sociali, riuso, economia circolare. A questo tema è dedicato il numero di Vita di luglio, intitolato "Food Social Club", con una copertina firmata da Philip Giordano. Fra gli incontri che accompagnano questo viaggio, c'è Pietro Leemann, chef del Joia di Milano, un tempio della cucina vegetariana.
Nato a Locarno nel 1961, con un padre insegnante che ogni mattina guidava lo scuolabus per raccogliere casa per casa i suoi piccoli alunni, Leemann in cucina da quarant’anni vive e crea. È stato nella brigata di Gualtiero Marchesi, ha studiato filosofia e insegnato Tai Chi, ha vissuto a lungo in Oriente: nel 1989 viene coivolto nel debutto del Joia, un ristorante tutto vegetariano. Nel 1996 è stato il primo ristorante vegetariano in Europa ad ottenere una stella Michelin e ancora oggi è l’unico ristorante vegetariano stellato in Italia. Tutti gli ingredienti sono biologici, la maggior parte coltivati da contadini amici, alcuni provengono dall’orto in agricoltura sinergica.
Qual è stata l’intuizione che ormai quasi trent’anni fa l’ha portata a scommettere sul cibo vegetariano?
Il cambiamento naturalmente è nelle persone e oggi come quando abbiamo aperto la dimensione è relativa alla scelta. Con i miei soci di allora ci siamo resi conto che mancava a Milano un ristorante con le caratteristiche filosofiche, etiche, morali e salutistiche che portavano noi e altri a fare la scelta vegetariana. Allo stesso tempo però volevamo che questo ristorante avesse le caratteristiche gourmet, fosse votato al piacere: la cucina vegetariana c’era anche prima ovviamente, ma aveva come prerogativa o la salute – quella macrobiotica – o la povertà, cioè la gente non mangiava carne perché non poteva permettersi di comprarla. Una nuova generazione di persone invece voleva un cambiamento culturale, legato alla qualità del cibo, al piacere, al modo di vivere. È vero, allora questa scelta apparteneva più a un ceto sociale e culturale medio-alto. Il motivo principale che mi ha portato a fare la scelta vegetariana è stato che ho fatto qualcosa che faceva parte di me, al di là del fatto che potesse funzionare come progetto imprenditoriale.
Oggi i numeri sono cresciuti moltissimo: che cambiamento culturale c’è stato secondo lei?
Il cambiamento culturale c’è stato perché i tempi erano maturi, avviene sempre così nella storia. C’è stato perché le informazioni sono passate, perché oggi tutti sanno come è corretto mangiare, perché siamo coscienti di cosa siano gli allevamenti intensivi e prendiamo posizione. L’aspetto per me interessante è che si tratta di un trend legato al cambiamento della coscienza delle persone, che non si limitano più ad accettare senza riflettere ciò che gli viene proposto ma cercano di scegliere ciò che più corrisponde loro. E ciò che corrisponde loro è naturalmente una dieta più sana, perché nessuno vuole mangiare una cosa che fa male, è naturalmente una cucina più etica. Questo è interessante perché sta cambiando la società da dentro, la sta sradicando e sta ricostruendo, in una rivoluzione che non è scendere in piazza con le bandiere ma di trasformazione. Ed è inarrestabile proprio perché avviene dal di dentro.
È in atto un trend legato al cambiamento della coscienza delle persone, che non si limitano più ad accettare senza riflettere ciò che gli viene proposto ma cercano di scegliere ciò che più corrisponde loro. E ciò che corrisponde loro è naturalmente una dieta più sana, perché nessuno vuole mangiare una cosa che fa male, ed è naturalmente una cucina più etica. Questo è interessante perché sta cambiando la società da dentro, la sta sradicando e ricostruendo, in una rivoluzione che non è scendere in piazza con le bandiere ma di trasformazione. Ed è inarrestabile proprio perché avviene dal di dentro.
Pietro Leemann
Quali sono i segnali che vede, più recenti, di trasformazione?
Nel mio piccolo innanzitutto un successo di pubblico molto importante. Se prima ciò che proponevo era qualcosa di “diverso”, oggi Joia è il crocevia del cambiamento, il simbolo che si può fare, si può cucinare in modo diverso, cucinare in un modo che fa bene, le persone vengono per questo. Ma anche cambiamenti a livello scientifico, sono stato amico di Umberto Veronesi, sono amico di Franco Berrino, ciò che mangiamo impatta sulla nostra salute. Anche in agricoltura si sta formando in Italia una società di scienziati che intende definire i parametri di quello che è giusto coltivare e perché non utilizzare ad esempio neonicotinoidi, cose deleterie non solo per la natura ma anche per la salute delle persone, dimostrandolo in modo scientifico. A tutti i livelli quindi c’è una trasformazione, che alla fine è un tentativo di trasformare l’economia, mettendo a monte ciò che è giusto. Si può far bene e aver successo senza inquinare, senza fare una cucina che fa male, senza coltivare in modo sbagliato. Non voglio fare un discorso politico, ma il modo di fare politica è un po’ vecchio, come era vecchio il modo di cucinare o coltivare… Invece c’è in atto un rinnovamento bellissimo che dice che “si può fare”. Resta un fenomeno ancora di un ceto culturale medio-alto, è vero che i coltivatori biologici sono in gran parte laureati, ma forse è anche perché ci sono complessivamente più laureati. O perché in fondo checché se ne dica siamo benestanti, abbiamo la possibilità di fare scelte, siamo meno ricattabili.
Appunto. Lei ha detto che potendo scegliere tutti naturalmente vorremmo una cucina etica e sana, un cibo buono che fa bene, che non si può non volerla. Intanto cos’è un cibo etico e chi è lo chef etico?
Certamente chi fa scelte etiche, a cominciare dagli ingredienti che devono necessariamente essere rispettosi del pianeta, degli animali e di chi mangia, della sua salute. Anche quella è un’etica. Io non posso cucinare un piatto che piace ma che avvelena chi lo mangia, è sbagliato. E poi un’altra questione che mi sta molto a cuore, la cucina etica è una cucina che include e accoglie le altre culture. Milano sta vivendo un momento magico, di scambio culturale, qui ci sono etnie di tutto il mondo che cucinano in modo diverso, questo è bellissimo. Volentieri le barriere vengono infrante dal cibo e in modo particolare dal cibo vegetariano, che più di tutti è quello che mette d’accordo ogni cultura e ogni religione. Il cibo vegetariano va bene per musulmani, indù, kosher… va bene per tutti, con il cibo vegetariano tutti possono sedersi alla stessa tavola e fare questo scambio importantissimo che è l’accettare l’altro, che è alla base della civiltà. Perché una società che non accetta l’altro è incivile.
Nella sua biografia lei ha scritto che all’inizio non capiva la cucina giapponese. Poi l’ha capita?
Poi sì, l’ho studita, l’ho cucinata. Viaggiare non è andare a mangiare spaghetti in Tibet, ovviamente. E anche qui, il bello è che si può mangiare vegetariano ovunque.
Il succo è che non possiamo chiudere la definizione di “chef etico” e cibo etico in un recinto? E in Paesi diversi gli chef hanno problemi etici diversi?
Certo, noi siamo fortunati per la gamma di ingredienti che abbiamo, altrove, ad esempio in Norvegia, è difficile pensare alla stagionalità. D’altra parte paradossalmente in quei Paesi si lavora molto sull’etica del cibo. Etica è anche risparmio energetico, non sprecare, non buttare via…
La cucina etica è una cucina che include e accoglie le altre culture. Le barriere vengono infrante dal cibo e in modo particolare dal cibo vegetariano, che più di tutti mette d’accordo ogni cultura e ogni religione. Il cibo vegetariano va bene per musulmani, indù, kosher… per tutti. Con il cibo vegetariano tutti possono sedersi alla stessa tavola e fare questo scambio importantissimo che è l’accettare l’altro, che è alla base della civiltà. Una società che non accetta l’altro è incivile.
Pietro Leemann
Nella sua filiera su questi temi cosa c’è?
Qui intanto abbiamo il bistrot accanto al ristorante, quindi una carota che al gourmet viene tagliata a cubetti precisi, al bistrot è più semplice, le parature si usano qua. Poi ci siamo noi che mangiamo e ogni sera una ragazza della cucina porta alla Stazione Centrale quello che rimane e lo dà informalmente alle persone. Nel mio piccolo anche io compro energia etica, consumo il meno possibile. È un luogo comune, ma i cambiamenti non vengono fatti dai grandi progetti quanto dalle piccole così, quando ciascuno ce la mette tutta per quello che è. Lo chef ce la mette tutta, ciascuno di noi a casa ce la mette tutta… al meglio delle proprie possibilità, consapevoli che è impossibile essere perfetti sotto ogni aspetto, io non lo sono, ma faccio di tutto per essere il meglio possibile. Il Joia c’è da 26 anni, sono diventato amico dei contadini, ho avuto tempo di riflettere, il cambiamento è stato graduale e oggi siamo un esempio. A Joia Academy molti vengono per capire proprio questi meccanismi.
Sta dicendo che c’è una replicabilità?
Sì, l’inizio di tutto è il desiderio di cambiare, ma poi bisogna cambiare. Uno desidera diventare vegetariano, ma poi bisogna saper cucinare vegetariano, altrimenti è un gatto che si morde la coda, perché vai al supermercato biologico e compri i piatti già pronti, che spesso sono sbilanciati dal punto di vista delle proteine, mentre il protagonista della cucina dovrebbero essere le verdure, che è il cibo più etico che c’è. Queste sono le sfide della nostra società, il cibo – dove si lotta anche ai ferri corti, perché nel vecchio modo c’era un altro modello economico – e l’energia. Trovo bellissimo che attraverso ciò che facciamo e mangiamo noi cambiamo e progettiamo la nostra vita, che diventa diversa nel momento in cui mettiamo in pratica i nostri ideali. Nel piatto è facile farlo. Basta guardarlo, abbiamo l’occasione davvero quotidianamente di interrogarci, lo dobbiamo guardare e pensare se quel piatto corrisponde ai nostri ideali.
E se non lo fa?
Se non lo fa, dobbiamo cambiarlo, prendere posizione. È abbastanza facile farlo, fare prendere a qualcuno altro le scelte su ciò che mangiamo ci porta a scollegarci da ciò che siamo noi. Ad esempio con i cibi pronti è qualcuno altro a scegliere la composizione, se lei invece dice "stasera faccio un’insalata con borlotti e dragoncello", decide lei cosa mangiare. Sembra una banalità, ma questa emancipazione non va sottovalutata, le persone hanno voglia di saper cucinare e saper cucinare è una forma di libertà, perché non dipendo più dal mercato.
Forse più ancora libertà sarebbe allora saper scegliere le materie prime… che mi sembra un punto debole.
Quello è importantissimo. Ovviamente la scelta delle materie prime possiamo farla meglio se riusciamo a sviluppare una sensibilità e perché questo accada è fondamentale che i cibi non siano artefatti, altrimenti diventano irriconoscibili. In fondo però è una sensibilità innata in tutti, perché chiunque sa scegliere fra una carota buona e una carota non buona. Tutti, tutti…
Allora come si fa a dare a tutti la possibilità di poter assaggiare, riconoscere e acquistare la carota buona?
Facendo una scelta di fondo, per organizzarci meglio. Stabilendo una nostra dieta ideale, organizzando un menù settimanale, non stipando il frigorifero, diminuendo gli acquisti e quindi acquistando cibo di migliore qualità. Comprare meno ma di maggior qualità, la svolta è questa. Un the darjeeling primo raccolto, un super the, costerà 120 euro al kg, sembra tantissimo ma con un kg fai il the per un anno e hai preso l’eccellenza. Se invece di 2 kg di carote non buone che vanno male in frigorifero ne compri mezzo kg straordinario, cambia tutto. Bisogna puntare verso l'alto, scegliendo di non scegliere ciò che costa troppo poco, perché è impossibile avere un olio extravergine d’oliva a 4 euro.
La domanda più esplicita è come rendere democratico e accessibile un cibo etico, buono, di qualità in un tempo in cui abbiamo ancora un problema di persone che non hanno accesso al cibo.
Sì, è profondamente ingiusto che il cibo che fa male costi poco e il cibo che fa bene costi tanto. Il cibo che fa bene deve essere come le medicine, devono essere disponibili a tutti, non può essere che possono prenderle solo quelli che possono pagarle. Il cibo che fa bene deve essere accessibile e io penso che avverrà.
Chiunque sa scegliere fra una carota buona e una carota non buona, è innato. Allora si tratta di organizzarsi meglio, stabilendo una dieta ideale, organizzando un menù settimanale, non stipando il frigorifero, diminuendo gli acquisti e quindi acquistando cibo di migliore qualità. Comprare meno ma di maggior qualità, la svolta è questa.
Pietro Leemann
Come?
Io sono amico di quelli che fanno il mercato Slow Food alla Fabbrica del Vapore, è eccezionale quello che fanno: i loro volumi di vendite stanno diminuendo perché ormai Milano è piena di mercati biologici, AIAB fa un mercato al giorno, ogni giorno in un posto diverso, ci saranno un centinaio di negozi biologici, in tutti i supermercati c’è la linea biologica… Il cambiamento avviene, siamo in piena trasformazione, non vedo l’ora di vedere cosa accadrà. Poi a livello globale, la migliore maniera per cambiare è portare conoscenza, altrimenti subisci: è una regola generale, ma che vale anche sul cibo. Cibo e cultura devono andare di pari passo. L’altro passaggio importante, oltre alla scelta, è la responsabilità: io mi assumo la responsabilità di ciò che cucino e offro. Una vita spirituale è una vita in cui le persone si assumono le proprie responsabilità, che una volta invece erano delegate. Si delegava al medico la salute, a chi cucinava il cibo, ad altri il problema dell’inquinamento… Prendersi le proprie responsabilità è un passo per la spiritualità, ognuno di noi come individuo.
Expo ha lasciato qualcosa?
Expo mi è piaciuta molto, il lascito di Expo è la Carta di Milano, che si cerca di mantenere viva. La Carta di Milano dice “si dovrebbe fare così”, adesso si sta dicendo “come si fa per fare così”, il passo successivo sarà “si fa così”. I miei colleghi ormai stanno andando tutti verso la scelta di ingredienti più etici, tutti, non perché sia trendy ma perché ci credono. C’è un’associazione, “Ambasciatori del Gusto”, di cui faccio parte, nello statuto c’è questo aspetto, ormai non puoi prescinderne. Non so se sia per Expo, probabilmente era una tendenza già in nuce, il merito è stato quello di averlo colto e rilanciato a livello mondiale. Poco fa ero con Lavazza, anche loro pensano così, lo stesso Barilla…
Ha citato due big dell’industria alimentare italiana… Non crede che finché non arriviamo a cambiamenti a livello di industria sarà sempre un po’ un discorso di nicchia?
Certo, ma è possibile. Chi fa il mercato? Il consumatore. Se cambia il consumatore, cambia il mercato. Ci sono difficoltà reali, ad esempio lo zucchero è messo all’indice da tutti e ci sono industrie che hanno lo zucchero al centro, ma trasformarsi è possibile, Ricola ad esempio fa caramelle che non hanno più zucchero. Oggi ancora a livello di cibo nessuno paga le conseguenze di una cattiva alimentazione, tranne chi le subisce: se una persona mangia male, si ammala e paga le conseguenze, ma l’industria che le ha venduto quel cibo non paga nulla, non ha responsabilità. Ma un venditore di hamburger – come uno di sigarette – dovranno assumersi delle responsabilità, lo Stato dirà “signori miei, non ce la faccio più con la sanità, dovete fare la vostra parte, o mi aiutate a curare le persone che voi avete contribuito a far ammalare o cambiate". Secondo me manca molto poco. Per questo anche l’industria sta riflettendo seriamente sulla necessità del cambiamento.
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