L'Europa è una casa abitata da spettri. Uno di questi è il populismo che avanza sulle rovine di un ordine liberale che, ancora, satura l'immaginario politico. Per quanto? Ne discutiamo con il filosofo Massimo Cacciari.
Il termine “populismo” è uno dei più ricorrenti nel dibattito politico odierno e viene frequentemente utilizzato come elemento discriminatorio nei confronti dell’una piuttosto che dell’altra forza politica. Al fine di sgomberare il campo da false interpretazioni, potrebbe illustrarci cos’è oggi il populismo?
”Populismo” significa etimologicamente assumere il “popolo”come un’entità astratta, un Uno, farne un’ente di ragione, magari sulla base di sue presunte origini, di una sua “arcaica” natura etnico-culturale, di una sua identità meta-storica se non anti-storica. I populisti iniziano sempre con operazioni di questo tipo. Su questa base poi sviluppano strategie di mobilitazione sociale, sempre caratterizzate dal voler rappresentare l’unità del popolo, “pura” da ogni contaminazione propriamente politica. Il populista non è chi rappresenta, ma chi si identifica col tale unità. Tutto il suo discorso è puramente mitologico. Il che non lo rende meno pericoloso, anzi.
Quali sono le caratteristiche sociali e culturali che ne hanno favorito lo sviluppo in Italia?
Profonde caratteristiche del “genio” italico hanno sempre favorito nel Moderno l’insorgere di tendenze populistiche( che spesso appaiono nella forma del qualunquismo, del rigetto acritico di ogni responsabilità politica). Le differenze, le disuguaglianze tra regioni e classi sociali, mai seriamente affrontate nella storia unitaria, sono, paradossalmente, fattori importanti nel promuovere pulsioni populistiche: queste “superano” demagogicamente quelle differenze, evitando di assumere piena responsabilità nel volerle affrontare.
Più grave è la crisi che corrode un sistema-Paese, più ci si dirà certi retoricamente di avere la ricetta buona per risolverla. E poi conta la secolare difficoltà del “carattere” di tante parti della società civile nostrana nel porsi dal punto di vista del collettivo, del sociale, del pubblico. Ognuno tende a fare società a sé, diceva Leopardi.
Secondo autorevoli studiosi le nuove élite di pensiero sono state conquistate da ideali transnazionali che hanno creato uno scollamento con il comune sentire dell’opinione pubblica. Potrebbe tale tesi annoverarsi tra le cause fondanti del “populismo”?
Si, un generico cosmopolitismo più massonico che davvero illuminista, un vago utopismo di certe correnti intellettuali può aver favorito derive populistiche – ma solo nel senso di non avere nel proprio arco alcuna freccia buona per combatterlo.
Il fenomeno del “populismo” sta senz’altro dilagando in Europa o, più in generale, nel cosiddetto “occidente”. Vi è forse qualcosa che non sta più funzionando nei sistemi democratici?
Da tempo sappiamo che una fase delle democrazie occidentali è giunta alla sua crisi. Democrazia e forma-Stato sono state fin qui inscindibili. Ora siamo a un punto in cui soltanto federazioni di Stati o Imperi possono confrontarsi nella lotta per l’egemonia che la politica è sempre stata e sempre sarà( mutano le armi con cui la si combatte). Nessuno sa quale democrazia potrà sopravvivere al termine dello Stato costituzionale di diritto. È la grande sfida dell’epoca.
Dal “populismo” potrebbe, a suo avviso, nascere un sistema alternativo a quello delle democrazie liberali? L’ordine liberale è finito (a differenza ancora dello Stato), se con esso si intende un ordinamento che mirava a soddisfare esigenze universali di benessere, attraverso politiche anche distributive favorevoli alle classi del lavoro dipendente. Da trent’anni la tendenza si è invertita rispetto al primo periodo post-bellico, dall’immediato dopoguerra all’inizio degli anni ’80, a Reagan e alla Tatcher. Se per “liberale” non si intendono i Weber e i Keynes, ma gli apologeti del semplice libero scambio planetario e della globalizzazione economico-finanziaria, allora, invece, l’ordine liberale trionfa! Con quali catastrofiche conseguenze lo stiamo vivendo.
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