Stefania Prandi è un collega di talento: curiosa, esperta di giornalismo di genere, attenta alle ferite che le donne da secoli portano addosso. “Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo” è il suo ultimo lavoro: un’inchiesta internazionale sullo sfruttamento delle braccianti in Italia, Spagna e Marocco. Un viaggio durato due anni nei tre Paesi tra i maggiori esportatori di ortaggi e frutta in Europa e nel mondo. Un viaggio di ascolto della voce delle donne, di traduzioni, di mediazione: lavoratrici umiliate, annullate, violentate. Italiane e straniere. Spesso invisibili. Un’inchiesta cruda e audace sulle molestie, lo sfruttamento e la tortura psicologica che interroga tutti noi su diritti umani negati e su cosa portiamo sulle nostre tavole. Le paghe irrisorie, i turni estenuanti, le baracche, la solitudine, i ricatti e le violenze verbali, gli stupri e gli aborti tra campi di fragole e pomodori. Ma anche la resistenza alla violenza, la sopravvivenza quotidiana, il coraggio della denuncia che spesso cade nel vuoto. Un libro che parla alle donne e agli uomini e che ci interroga su cosa portiamo a tavola.
Un libro sulle donne per le donne e per gli uomini. Un libro che raccoglie le storie drammatiche delle braccianti di Palos de la Frontera in Spagna, di Vittoria in Italia, di Souss Massa in Marocco. Storie identiche, caratterizzate da violenza, abusi sessuali, enormi solitudini, assenza di controlli e diritti violati. Con che stato d'animo si scrive un libro così, dopo due anni di reportage?
La parte più difficile è stata fare le domande sugli abusi, accaduti nonostante le vittime abbiano cercato di evitarli e combatterli. Mentre ascoltavo le risposte sapevo che per le donne sarebbe stato difficile riuscire ad avere giustizia o comunque ad ottenere un risarcimento. Molte donne mi hanno chiesto: pensi davvero che raccontare quello che abbiamo passato possa servire a qualcosa? Ho sempre risposto di sì anche se certe volte la mia certezza vacillava, perché il livello di ingiustizia oltrepassava la mia immaginazione. Resto convinta, a lavoro concluso, che fare emergere i fenomeni di violenza sia il primo passo per cambiare le cose. Ma denunciare attraverso i media certamente non basta: le istituzioni, i tribunali e la società civile devono fare la loro parte.
Ci sono le donne, ma ci sono anche gli uomini: i "supervisori" Abed in Spagna, Brahim in Marocco, i proprietari delle serre in Sicilia e in Puglia. Carnefici su cui non si abbatte mai la scure della giustizia, come dimostra anche il caso – citato nel tuo libro – del "Processo Dacia". La Legge sul Caporalato, dell'ottobre 2016, e la morte ingiusta di Paola Clemente hanno mosso qualcosa e scosso qualche coscienza, ma che cosa ostacola veramente la legalità e il rispetto dell'essere umano in queste terre di raccolta?
La cultura dell’illegalità e dell’abuso è più forte delle leggi e viene rafforzata dall’omertà. Purtroppo nei territori dove sono presenti certi fenomeni come quello dello sfruttamento della manodopera femminile nei campi, con gli abusi sessuali, c’è anche un atteggiamento diffuso di tolleranza, un senso di impunità per chi li commette. A rendere ancora più pesante il clima, il sessismo condiviso da uomini e donne, l’idea che siano le donne a cercarsela.
Ci sono anche altri uomini che hai incontrato: c'è Josè, il sindacalista di Palos de la Frontera, e Don Beniamino, il parroco di Vittoria. Uomini che scelgono di stare dall'altra parte. Dalla parte delle vittime. Che persone sono? Che ostacoli incontrano?
Credo sia bene sottolineare che la cultura sessista che caratterizza i territori al centro dell’inchiesta, cioè Italia, Spagna e Marocco, paesi dell’area mediterranea, diversi tra loro ma accomunati da caratteristiche simili, non riguarda soltanto gli uomini. Il sessismo si introietta e viene reiterato da uomini e anche da donne. Non mi ha mai stupito che ci fossero uomini per bene capaci di battersi contro la violenza sulle donne: sono persone in grado di uscire dai meccanismi maschilisti. Sono pochi, certo: sono uomini che, a differenza di quelli che commettono gli abusi sessuali e i ricatti, non seguono le logiche del potere, ma le combattono. Sono uomini che rifiutano gli stereotipi del maschio macho, che riconoscono le logiche dello sfruttamento e le denunciano. La loro reazione è faticosa e sfiancante, perché sono ostacolati da chi è complice dei crimini, da chi preferisce che non se ne parli, da chi fa finta di nulla. Vivono spesso isolati sul territorio, ma non rinunciano a lottare.
Nel tuo libro c'è imbarazzo e c'è pudore. Nelle testimonianze che hai raccolto e, ti garantisco, anche nella mente di chi legge. Come donna mi sono sentita coinvolta, ma anche impotente. Senza pietà, hai messo nero su bianco anche il numero degli aborti. I dati nascondono un sommerso, ma puoi darci qualche numero che aiuti a comprendere la diffusione del fenomeno violenza sessuale/aborti?
Quando si affrontano certi fenomeni sommersi, come quello della violenza sul lavoro, è difficile trovare numeri efficaci. Purtroppo per quanto riguarda le molestie, i ricatti sessuali e gli stupri subiti dalle donne nei campi ci sono pochissime sentenze e poche denunce, gran parte delle quali finisce nel vuoto. Quindi è impossibile rispondere alla domanda: a quante donne succede? Ci si può basare sulle stime di chi opera sul territorio. Secondo Rosaria Capozzi, operatrice sociale di Foggia, «Su dieci datori di lavoro della nostra zona, non voglio dire sette, ma cinque ci provano e pesantemente, più con le straniere che con le italiane perché lo ritengono quasi uno Ius primae noctis (il diritto della prima notte) odierno». Un altro dato per certi versi indicativo è quello degli aborti. Penso ad esempio al territorio di Vittoria, in Sicilia: secondo i dati raccolti dal giornalista Antonello Mangano, il tasso di aborti regolari a Vittoria è stato di centoundici nel 2016, centodiciannove nel 2015, e rappresenta il 19% del totale della provincia di Ragusa. Secondo una ricerca pubblicata nel 2015 da Alessandra Sciurba e Letizia Palumbo, ricercatrici all’Università di Palermo, all’ospedale di Vittoria «ogni settimana ci sono circa otto aborti, dei quali tra i cinque e i sei di donne rumene».
Sullo sfondo delle tue storie, ci sono i figli di Kalima, Fatima, Alessia, Rachida: donne marocchine, rumene, italiane legate tutte da un triste e uguale destino. Figli molto piccoli che si comportano da adulti. Ho letto tra le righe del tuo libro una profonda sofferenza, tua e anche loro….
I bambini e le bambine che vivono in questi territori subiscono la conseguenza dello sfruttamento e delle violenze sulle madri e non hanno la possibilità di vivere un’infanzia normale. A volte diventano anche loro vittime di violenza. Per questo motivo molte braccianti migranti preferiscono lasciarli nel paese di origine con i parenti, magari i nonni o gli zii, invece di portarli con loro.
Ambienti insalubri, baracche, alloggi di fortuna, malattie da inquinamento da diserbanti e veleni: la violenza è anche lì…
L’assenza di diritti raramente riguarda soltanto un aspetto delle condizioni di vita e di lavoro. La mancanza di legalità nella quale si trovano a vivere e a lavorare migliaia di lavoratrici, migranti e non, porta a situazioni fuori da uno stato di diritto. Sconcerta che si tratti di territori che fanno parte della Comunità europea, che sono così vicini a noi, dietro casa.
Come ti spieghi l'assenza delle Istituzioni e la debolezza del mondo associativo, sia in Spagna, che in Italia che in Marocco?
È un aspetto che mi ha lasciata senza parole e che ha reso il lavoro di ricerca e di incontro con le donne particolarmente difficile. Ogni zona ha le sue specificità e quindi non si può generalizzare. In Puglia e in Marocco, nella zona di Souss-Massa, ho trovato sindacaliste e sindacalisti attivi ed impegnati. In generale, credo che la debolezza del mondo associativo sia dovuta al fatto che il problema è poco conosciuto ed è davvero difficile da combattere. Poi, in certi casi, ho l’impressione che potrebbero esserci anche altre ragioni, legate al sistema economico, ma non me ne sono occupata nel dettaglio.
Troneggia, ma la citi solo una volta alla fine del libro, la parola omertà: perché si ha paura di raccontare, di denunciare?
Perché, come dice Don Beniamino Sacco, parroco di Vittoria, il primo a denunciare gli abusi sulle braccianti anni fa: “a tanti fa comodo tacere”.
Alle tue domande, tante donne hanno anche risposto con il silenzio. Condito di lacrime. Silenziose anche esse. Cosa volevano dirti, secondo te?
Le donne che prendono la parola in questo libro lo fanno anche attraverso il silenzio. Hanno accettato di porsi di fronte al problema, di squarciare il velo sulla propria vita, di sottoporsi alle mie domande. Ho visto molto coraggio, molta rabbia e molta forza, al di là delle lacrime.
Cos'è dunque questo Oro Rosso? Per chi è Oro, denaro, arricchimento personale? Per chi è solo rosso, come il colore del sangue che testimonia tante violenze?
Vengono chiamati Oro rosso i pomodori in Puglia e Sicilia e le fragole e gli altri frutti rossi in Spagna. L’agricoltura intensiva di questi territori arricchisce una parte della popolazione e crea un grande bisogno di manodopera. Alle lavoratrici, però, resta ben poco del benessere prodotto dall’agricoltura intensiva.
Scrivere questo libro ti ha creato problemi come giornalista. Raccontare l'orrore di luoghi e persone è ancora fortemente ancorato all'idea della reputazione di un posto, di una città, di un Paese?
Il problema principale è stato quello di riuscire a raccogliere il materiale necessario superando il muro di omertà di chi mi diceva di lasciare perdere e di non immischiarmi, anche in malo modo. Ho trascorso settimane bussando a tante porte che non si aprivano e poi, ogni volta che qualcuno mi ha aiutata a entrare in contatto con le lavoratrici, ho capito il motivo di questa chiusura. Ci sono condizioni infernali di lavoro, condizioni di precariato, di assenza totale di diritti, di violenza, che tolleriamo come società, illudendoci che non ci riguardi.
Dai un suggerimento ai consumatori. Questi prodotti arrivano sulla nostra tavola. Cosa possiamo fare, da utenti finali?
Il mio compito è stato quello di impegnarmi al massimo per finire l’inchiesta. Da giornalista freelance non è stato semplice. Credo che la domanda: cosa possiamo fare? sia necessario rivolgerla ai sindacalisti, ai politici, alle Istituzioni, alla distribuzione, ai consumatori. Consiglio questo libro a chiunque sia interessato a conoscere i meccanismi della violenza sul lavoro e a chiunque voglia sapere cosa succede alle braccianti che raccolgono frutta e verdura.
A chi lo dedichi?
A tutte le lavoratrici che deciso di parlare. Non è vero, come hanno ripetuto in tanti per oltre due anni, che le donne non parlano. Le donne hanno voce e sono capaci di prendere la parola.
Oro rosso, pubblicato in italiano dalla casa editrice Settenove, si può trovare nelle librerie (anche su ordinazione), sul sito della casa editrice e sui principali siti online di vendita di libri (come Ibs e Amazon).
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