Il suo “Veleno” sulla scia dell’inchiesta di Bibbiano e delle polemiche che ne sono scaturite negli ultimi mesi è stato al centro del frullatore mediatico. L’inchiesta condotta con Alessia Rafanelli, poi diventata anche un libro, racconta in sette audio puntate scaricabili on line in podcast una vicenda accaduta vent’anni fa in Emilia Romagna che hanno sconvolto la vita di 16 famiglie, a cui i servizi sociali “portarono via” i figli. Alcuni dei nomi dei protagonisti di allora sono tornati alla ribalta pubblica proprio per via delle indagini in corso in Val d’Enza. «Il mio obiettivo», rivela subito in premessa, «non era quello di mettere all’indice il mondo degli affidi e delle adozioni, quanto quello di ricostruire una vicenda che giornalisticamente mi permettesse di sperimentare una nuova modalità di racconto, che negli Stati uniti sta prendendo sempre più piede, mentre in Italia è quasi sconosciuta: quella dell’audio-inchiesta digitale».
Quindi sei partito da un format: perché però i fatti di 20 anni accaduti a Mirandola e Massa Finalese ti sono sembrate l’occasione giusta?
La prima cosa che ho pensato è che fosse una storia che poteva essere serializzata perché dentro di sé aveva tante aperture a tanti mondi diversi. Il mondo del ricordo, della memoria, per esempio, che è super affascinante e molto poco esplorato dal punto di vista giornalistico, quindi il concetto di falso ricordo, il concetto di psicosi, il concetto di panico morale, la caccia alle streghe… Quello che sappiamo e non sappiamo sul satanismo e tutte le leggende metropolitane legate a questo fenomeno. Poi c’erano gli affidi, gli allontanamenti, il coinvolgimento dei servizi sociali. I legami familiari coinvolgono tutti: sono un elemento potentissimo, perché comunque siamo tutti o figli o padri o entrambi e quindi l’idea che questi legami possano rompersi a causa di agenti esterni è sicuramente un tema di grande interesse.
Sono però anche temi da trattare con una certa attenzione e cautela. Vi siete posti il problema?
Certo. Si trattava di 16 persone nate fra il 1987 e il 1997. Quando abbiamo incominciato il nostro lavoro erano tutti maggiorenni. Il problema era quello, diciamo così, di risvegliare in loro il mostro che avevano dentro. La domanda chiave era: andiamo a cercali tutti e 16? La risposta che ci siano dati era che avremmo cercato solo chi a quei tempi non fosse troppo piccolo e quindi avesse ricordo da trasmetterci o chi avesse già fatto qualche dichiarazione.
Come facevate a sapere chi lo aveva fatto?
Abbiamo potuto contare sulla documentazione straordinaria che ci hanno messo a disposizione don Ettore Rovatti che è stato questo parroco di Finale Emilia e Oddina Paltrinieri, la Erin Bronkovich di Massa Finalese: lui è morto nel 2015, lei nel 2013 e hanno passato almeno 15 anni, gli ultimi 15 anni della loro vita, a indagare su questa storia.
Dei 16 bambini “rapiti”, quanti ne avete cercati?
Una decina. Abbiamo trovato il bambino zero, che è stato quello da cui è nata tutta la vicenda. Lui ci ha detto di aver subito un lavaggio del cervello da parte degli psicologi. E la stessa cosa ci hanno confermato successivamente altre due ragazze che allora avevano 8 e 10 anni, una delle quali è tornata a casa dalla madre dopo vent’anni e l’altra è la figlia della donna che si è suicidata – che ci hanno detto: «Vogliamo raccontare». Anche qui lavaggio del cervello, ricatti della serie “devi raccontare quello che è successo: sappiamo che siete stati violentati, sappiamo che vi portavano nei cimiteri, sappiamo che tua mamma non è una brava mamma, la visita medica conferma questa cosa… Tu non sei coraggioso se non lo racconti… Se non parli non rivedi più i tuoi genitori…”. Grazie alle loro testimonianze si è riaperto il processo di revisione nei confronti di uno degli imputati.
Oltre che con loro tre avete parlato con qualcun altro delle 16 presunte vittime?
Con altri ragazzi no, non hanno voluto parlare.
Che persone hai trovato? C’è un filo rosso che tiene insieme queste vite?
Sono storie molto differenti fra loro. Alcune sono molto provate psicologicamente. Ci sono altri che ancora credono di essere stati nei cimiteri, di aver ucciso, di aver visto sacrifici umani, o aver ucciso altri bambini; hanno ancora questo tipo di ricordo con tutto quello che questo si piò portare dietro. Altri ancora che invece si sono resi conto che era tutta una fantasia messagli in testa dai servizi sociali. Sono persone diverse che sono cresciute in famiglie affidatarie diverse. Nessuno di loro sta bene, ecco mi viene da dire questo, se devo trovare un filo conduttore.
Avete fatto qualche errore secondo te nella costruzione della storia?
No, perché è stato tutto molto ponderato. Ci siamo stati tre anni su questo progetto. Abbiamo riflettuto a lungo, ci siamo confrontati a lungo. Ci sono state delle cose che abbiamo scelto di non dire perché erano troppo delicate. Alcuni dei ragazzi oggi dicono che gli abbiamo riaperto delle ferite: a noi dispiace, però ci sono state delle famiglie che sono state completamente sventrate. Purtroppo non è colpa nostra, è questa storia che fa schifo.
Con organizzazioni che gestiscono adozioni piuttosto che affidi non coinvolte nello specifico della storia vi siete confrontati?
No, perché in realtà noi abbiamo fatto un’indagine su una storia precisa e su tutto quello che era il mondo che gli ruotava intorno. Quindi ci siamo concentrati per esempio sulla onlus Hansel e Gretel coinvolta, fra l’altro, anche nella vicenda di Bibbiano, ma Veleno non è per nulla un atto di accusa contro il mondo delle adozioni o degli affidi, che fra l’altro non abbiamo mai criticato. Non solo, nella serie abbiamo ribadito in almeno un paio di passaggi che i servizi sociali sono importanti così come i soggetti della società civile. Il nostro è stato un trattamento giornalistico di un “very hot cold case”. Il mondo degli affidi è un’altra cosa, è un universo enorme pieno sicuramente di persone ed esperienze virtuose.
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