Dobbiamo avere paura della mafia nigeriana? Certamente sì, come di tutte le mafie. Ma prima di tutto, racconta Sergio Nazzaro, «la dobbiamo capire e studiare». Giornalista, studioso, Nazzaro ha da poco pubblicato un bel libro, Mafia nigeriana. La prima inchiesta della squadra antitratta (136 pagine, 16 euro) per le edizioni Città Nuova. Nel 2013, per Einaudi, aveva pubblicato un lavoro pionieristico, Castel Volturno. Reportage sulla mafia africana.
Gli abbiamo chiesto di aiutarci a capire.
Mafia nigeriana: se ne parla tanto, sostenendo che se ne parla poco… Qual è la situazione?
Questo fenomeno, che sembra vogliano spacciare per una novità non lo è affatto. La prima informativa della polizia di Castelvolturno si chiama Restore freedom e indagava proprio la criminalità nigeriana per possibili reati di mafia e organizzazione di stampo mafioso…
Parliamo del 416bis…
Esattamente. Parliamo di diciannove anni fa, nel 2000. Castel Volturno è la località da cui tutto parte. Sei anni dopo, ritroviamo la criminalità nigeriana a Torino, dove si è inserita. L’Operazione Niger porta a una condanna per mafia delle organizzazioni nigeriane nel 2006. È la prima condanna. Poi viene il Tribunale di Napoli che nel 2008, condannando queste organizzazioni nella sentenza scrive qualcosa che dovrebbe farci riflettere: «le organizzazioni criminali nigeriane diventano mafia in Italia».
Che cosa significa?
Significa che assumono in Italia i caratteri dell’omertà, del mutuo soccorso mafioso e le caratteristiche del modello mafioso.
Arrivano quindi in Italia come organizzazioni criminali, ma come mafie vere e proprie si strutturano qui?
Esattamente. Viene copiato proprio il carattere di essere mafia, mentre per quanto riguarda la struttura hanno la propria, con specifici ordini gerarchici.
È notizia di questi giorni un’operazione, da parte della Procura di Perugia, con oltre 150 arresti. Un’operazione che vedeva i tanzaniani al vertice delle organizzazioni interessate dall’operazione…
Se ne è parlato come di una novità, ma negli anni Novanta registravamo già la presenza di spacciatori tanzaniani a Pescopagano e Mondragone. È esattamente questo il problema quando ragiona di queste mafie: il panorama storico non è sempre tenuto in debito conto.
Quindi o si minimizza o si amplifica…
Mancano i database vissuti o ben codificati. Il Procuratore di Perugia, ad esempio, incorre in un errore affermando che è la prima volta che si individua un’etnia tanzaniana al vertice di un’organizzazione dedita al traffico di droga internazionale. Nel 2007, la Guardia di Finanza di Fiumicino porta avanti un’operazione denominata Venus, operazione conclusa nel 2012: a capo dell’organizzazione c’erano proprio i tanzaniani. Altra particolarità dell’Operazione Venus fu che, arrestato il capo, divenne capo una donna. Terza particolarità, per la prima volta si registra un’esportazione di droga dall’Italia vero il Canada. Questi sono solo alcuni dati di fatto, per far capire come è ampio il fenomeno. Le forze dell’ordine dovrebbero organizzare un database con tutte le operazioni fatte, distinguendo quella che è la semplice criminalità dalla mafia. Ma non ogni organizzazione criminale è mafiosa, visto che lo stabilisce il nostro Codice Penale che cos’è un’associazione mafiosa. E’ necessario avere un database che decodifichi le centinaia le operazioni di Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza contro questo fenomeno.
Perché insiste tanto sull’importanza di un database delle operazioni?
Perché affacciamo sul Mediterraneo e i nostri dirimpettai sono il mondo africano, nel bene e nel male. Le mafie non hanno colore, non sono razziste. Alcune intercettazioni ottenute nel corso di un’operazione a Casal di Principe, oltre dieci anni fa, sono molto interessanti: si capiva il rapporto di profonda amicizia e fiducia tra i camorristi e gli spacciatori di strada, tanto che gli stessi camorristi scesero in piazza per difendere la loro “manovalanza”. Uno dei due camorristi diceva all’altro: “nessuno si deve permettere di toccare il nostro amico”.
Una rete di fiducia e di mutuo soccorso, insomma…
Basata su una fiducia mafiosa, beninteso. Detto in maniera provocatoria: le mafie sono quanto di più inclusivo c’è al momento.
La mafia nigeriana non entra dunque in conflitto con quella italiana?
Chiariamo subito una cosa: se c’è una mafia nigeriana in Italia è perché le mafie italiane la vogliono. Tutte le mafie straniere che operano in Italia lo fanno sotto l’egida delle mafie italiane: ndrangheta, camorra, mafia. Accade perché l’interesse delle mafie “nostrane” è aver ceduto pezzi di mercato che a loro non interessano o non interessano più e su cui, comunque, guadagnano: la prostituzione, lo spaccio al dettaglio. Ma la droga che viene spacciata viene dalla “nostra” mafia. Un Report della Banca d’Italia ci ricorda che solo nel Nord del nostro Paese la ndrangheta fattura 3,5miliardi di euro: è chiaro che un’organizzazione così strutturata non ha interesse a impelagarsi in quel crimine che crea anche allarme sociale, lo gestisce da lontano e non si sporca le mani. Gli spacciatori “neri” sono usati come schermo da queste mafie. Ma ricordiamo anche il mercato della mafia nigeriana è alimentato dai consumatori di cocaina o di prostituzione…. italiani. Magari da quelle stesse persone che, poi, la sera, davanti a un talk show inveiscono contro lo spacciatore o la prostituta…
È un mercato…
è un mercato che ha una domanda, quindi loro arrivano con l’offerta.
Spaventano molto i rituali di affiliazione alla mafia nigeriana, esistono?
Esistono eccome. Ci sono rituali magici e riti vudù. Ad un certo punto, i termini usati per descrivere il fenomeno sono diventati, soprattutto sui giornali, degni di un film horror. Servono invece studio e analisi altrimenti si creano leggende metropolitane come quella sul presunto traffico di organi a Castel Volturno.
Resta un dato oggettivo: la difficoltà di accedere alle lingue nigeriane, mancano competenze linguistiche e interpreti…
Il lavoro di intelligence svolto dalle nostre Forze dell’Ordine è di primissimo livello, proprio perché parte da difficoltà oggettive. Questo lavoro dovrebbe diventare un patrimonio nazionale. Forse dovremmo prendere esempio dall’FBI, che da decenni ha tra le sue fila ispanici, africani e ha persone con forti competenze interculturali e interlinguistiche. Non possiamo limitarci ad avere il corazziere di colore, dobbiamo aprire le nostre agenzie alla complessità di un mondo globale e complesso non solo nelle sue derive criminali.
Come?
Magari creando una Task Force di investigazione sulle criminalità provenienti dal mondo africano, questo permetterebbe di superare alcune difficoltà investigative. Quando si dice che c’è bisogno dell’esercito contro la mafia nigeriana si dice una sciocchezza. La Squadra Antitratta, ad esempio, ha fatto operazioni straordinarie e come le ha fatte? Le ha fatte intercettando mezzo milione di telefonate, senza sparare un colpo. D’altronde, sono tre i soggetti che combattono la mafia nigeriana: magistratura, polizia e… le vittime. L’Operazione Atheneum, che porta all’arresto di 44 mafiosi, nasce dalla denuncia di una ragazza sfruttata dalla sua madame.
Come è nato il suo ultimo libro?
Si tratta del mio terzo libro sul tema. Sono partito da una notizia, piccola, in cronaca. L’ho letta e mi sono messo a scavare. Nello specifico, lessi una notizia su un’operazione che stavano conducendo a Torino. Mi colpì una cosa, che inizialmente non riuscivo a decifrare ovvero che si trattava di un’operazione della polizia locale…
Dei vigili urbani…
Proprio loro. Il commissario Lotito, che aveva condotto l’operazione assieme al PM Castellani, avevano creato una squadra di dieci uomini, una squadra antitratta… Una squadra distaccata presso la Procura, quindi in grado di svolgere operazioni giudiziarie. Questo è il fatto che mi ha colpito e mi ha spinto a scrivere il mio ultimo libro: la bravura, la professionalità, il sacrificio di questa squadra e del PM che hanno lavorato a testa bassa su un problema così complesso. Senza urlare, ma studiando e indagando. Cosa che anche noi dobbiamo continuare a fare, per non cadere vittime di stereotipi e pregiudizi.
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