Una lunga esperienza all’interno dell’Organizzazione che da 100 anni è a fianco ai bambini più difficili da raggiungere. Daniela Fatarella, 45 anni, è dal 1 gennaio il nuovo direttore generale di Save The Children Italia dopo una lunga esperienza che inizia nel 2004 fino a ricoprire il ruolo di vicedirettore generale nel novembre 2015.
Un percorso circondato da tante professionalità per intervenire nel modo migliore nella marginalità sociale sul minore, soggetto di diritto, ma anche sull’adulto e quella comunità che dovrà supportare il suo percorso. Daniela Fatarella racconta l’impegno di Save the Children nelle principali rotte migratorie nel mondo e nelle attività a favore dei migranti minori in Italia. Non tralasciando temi come l’ingiusta colpevolizzazione delle Ong o quello centrale della Libia «che non è un porto sicuro e dove non possono essere riportati indietro i migranti».
Quali sono state le esperienze più significative all’interno di Save the Children in relazione anche al suo nuovo ruolo all’interno dell’Organizzazione?«Questi anni trascorsi all’interno dell’Organizzazione mi hanno avvicinato sempre di più a quello che era il pensiero della nostra fondatrice Eglantyne Jebb cioè che i bambini sono portatori di diritto, sono in grado di autodeterminarsi e devono essere messi nella condizione per poter sviluppare il loro potenziale. E questo l’ho visto nel mondo e in Italia dove, in particolare negli ultimi dieci anni, abbiamo lavorato a fianco dei minori migranti e comunque nelle zone italiane con una maggiore fragilità sociale.L’altra importante esperienza deriva dal grande valore del non profit nel tessuto sociale italiano e su quanto il concetto di fare rete sia importante per creare sviluppo ed empowerment. Save the Children ha un modello di lavoro che implica lo sviluppo della rete e la capacità di mettere a fattor comune competenze diverse. Non a caso noi in Italia e anche nel mondo lavoriamo con partner locali e facciamo network e rete con istituzioni pubbliche e private, il mondo non profit e quello istituzionale. Solo attraverso la costruzione di reti si può essere capaci di portare avanti temi rilevanti ed essere così incisivi sull’agenda politica. Da un punto di vista interno è stato un privilegio per me poter lavorare con persone che hanno una grandissima motivazione e professionalità, quest’ultima sempre più necessaria nel nostro lavoro perché ciò che facciamo ha un impatto enorme sulle categorie che sono più a rischio».
Quanti bambini riesce a raggiungere oggi Save The Children e quali sono le maggiori difficoltà e criticità per i minori? «Save the Children raggiunge nel mondo circa 50 milioni di beneficiari, 3 milioni e 300 mila sono quelli che intercettiamo con le nostre progettualità in Italia. La nostra Organizzazione ha chiaramente ha una missione rivolta ai bambini, i più marginalizzati e difficili da raggiungere. Bambini che vivono in una condizione di grande difficoltà che può essere causata da molteplici fattori: la condizione socio economica, la disabilità, il fenomeno migratorio, contesti sociali particolarmente poveri o soggetti alla criminalità. Save the Children agisce nella marginalità sociale. Raggiungere un bambino e soddisfare i suoi bisogni significa mettere il bambino al centro, creando una rete di supporto per lui e per la sua famiglia. Bisogna costruire una relazione che veda non soltanto il bambino, ma l’adulto di riferimento, la scuola, la comunità, quella che noi chiamiamo la comunità educante. Intorno al bambino devono esserci adulti che si prendono carico del suo percorso e del suo sviluppo e al tempo stesso i bambini devono imparare a prendere consapevolezza di loro stessi, del loro valore e del loro potenziale perché possano così autodeterminarsi».
In questo momento stanno proseguendo i soccorsi di migranti in difficoltà a Nord della Libia e nei giorni scorsi ci sono stati due sbarchi con minori. Come migliorare il processo di accoglienza nei confronti dei minori migranti che arrivano in Italia? «Save the Children è stata promotrice della Legge Zampa sui minori migranti in Italia e ha identificato una serie di elementi e strumenti che possono migliorare la modalità in cui i ragazzi sono guidati all’interno del sistema italiano d’integrazione e d’inclusione. In particolare mi piace ricordare la figura del tutore volontario, l’adulto di riferimento che prende in carico il minore e lo accompagna in questo percorso. Con il cambiamento del fenomeno migratorio e una diminuzione degli arrivi, è sceso anche il numero dei minori migranti arrivati negli ultimi anni, oggi sono molto più stanziali nel territorio, quindi più che mai è fondamentale dare vita a percorsi di integrazione e inclusione sociale. È fondamentale la capacità di vedere questi minori come risorse e come un valore aggiunto e vi assicuro che lo sono perché incontrandoli si scopre quella grandissima volontà, resilienza, voglia di mettersi in gioco e quella voglia di riscatto sociale che li contraddistingue».
Il 7 settembre 2016 dal porto di Augusta – principale porto di sbarco per i migranti arrivati in Italia dove non si sa perché è stato recentemente sciolto il gruppo interforze della Procura di Siracusa – partiva la vostra nave Vos Hiesta verso la zona Sar. Poi abbiamo assistito alla macchina del fango con inchieste nei vostri confronti e di altre Ong che non hanno portato a nulla. Quanto vi pesa oggi non essere più presenti sul Mediterraneo centrale? «Save the Children ha da sempre lavorato per i minori migranti in tutto il mondo, quindi siamo presenti nelle principali rotte migratorie perché il fenomeno riguarda tantissimo l’interno di paesi e continenti, dall’Africa Subsahariana ad altre zone del mondo Save The Children c’è sempre: oggi siamo nei luoghi dove c’è il maggior transito di minori. Quello che per noi è importante è essere certi di poter supportare le esigenze principali che i minori migranti hanno nel nostro territorio, un numero di 15800 mila minori stranieri non accompagnati in una fascia d’età che varia dai 14 ai 17 anni. Tra poco questi ragazzi diventeranno maggiorenni ed è necessario individuare dei percorsi di integrazione altrimenti si disperderanno nelle mani della criminalità organizzata. Non avendo la possibilità di essere presenti su tutti gli scenari riteniamo oggi di avere un ruolo forte e importante che riguarda un numero significativo presente sul nostro territorio».
Tornerete a salvare vite umane in mare?«Ad oggi è difficile stimarlo sulla base di quelli che potranno essere nuovamente i flussi. Noi come Save the Children abbiamo un focus principale sui minori, quindi la nostra attività anche relativa alla nave era legata anche al numero di minori migranti in transito. Ad oggi è difficile dirlo, tendenzialmente non abbiamo una visione di rientrare a meno che non cambiano completamente le condizioni, anche dei flussi migratori stessi. Questo perché in un’organizzazione internazionale rispetto alle necessità dei minori nel mondo (la nave non è una nave di Save the Children Italia, ma di Save The Children internazionale) noi andiamo a canalizzare gli sforzi nei teatri che vedono maggiormente coinvolti i ragazzi. Il discorso del fenomeno migratorio subisce l’impatto di diversi scenari di guerra, oggi ci sono 27 milioni di bambini che migrano a causa delle guerre e migrano all’interno del loro paese e nei paesi limitrofi. Noi siamo presenti dalla Siria allo Yemen, in teatri di guerra come l’Uganda o il Sud Sudan, quindi anche un po’ le traiettorie dei flussi dei minori migranti impongono per noi di rivedere come organizzare i nostri interventi. Il resto è stato un momento molto brutto per tutto il settore italiano del non profit che ha visto colpevolizzare le organizzazioni in generale e ha fatto cambiare la percezione agli italiani rispetto al nostro mondo che è un mondo che ha nel suo Dna la missione dell’aiuto. È stata una profonda tristezza rispetto all’esperienza vissuta. Ogni giorno anche con altri colleghi di altre organizzazioni ci impegniamo per rafforzare quel legame di fiducia che è stato danneggiato».
In assenza di effettive politiche europee per il soccorso in mare, il numero dei migranti morti in mare è in aumento e secondo gli ultimi report di varie associazioni internazionali è sempre più difficile da documentare. E oltre alle morti in mare si aggiungono le testimonianze atroci dei migranti nei campi di detenzione libici. Nel finire del 2019 una Ong ha pubblicato la testimonianza di due migranti che raccontano di aver visto dei carcerieri libici dare in pasto ai cani un neonato. Violenze atroci che tutti i giorni giungono a noi attraverso i racconti di queste persone. Qual è la vostra posizione sulla Libia?«La Libia non è un porto sicuro e quindi noi non abbiamo mai preso in considerazione il fatto che sia possibile riportare i migranti in Libia, un paese dove non sono garantiti i diritti fondamentali delle persone che si trovano a transitare e purtroppo a permanere nei centri di detenzione. Guardiamo tutti con interesse e attenzione, non solo noi come Save the Children, alla conferenza che ci sarà a Berlino sulla Libia, per vedere se le parti in causa troveranno una via di uscita. Quello che è fondamentale è arrivare ad identificare un modello di accoglienza europea. Noi da tempo abbiamo chiesto la revisione degli accordi di Dublino. Speriamo in un accordo a livello europeo e al tempo stesso spingiamo con le nostre attività di advocacy affinché si possano trovare delle soluzioni in particolare per le persone più a rischio, quindi per le persone che si trovano nei centri di detenzione e costruire corridoi umanitari, che nel nostro target specifico, possono permettere a tanti minori un passaggio sicuro verso il nostro paese».
Di fronte a questi orrori e ad una costante violazione dei diritti umani è accettabile la presenza di una così chiamata guardia costiera libica che intercetta i migranti per portarli indietro? La Libia non è un porto sicuro e quindi per me i migranti non possono tornare in Libia. Le politiche europee devono riguardare non solo le relazioni con gli stati terzi come può essere la Libia o eventualmente la Turchia, ma le politiche europee devono guardare anche un’accoglienza condivisa e diffusa sull’Europa stessa. La politica migratoria deve essere affrontata dall’Europa come una politica unica.
Credit foto: Francesco Pistilli
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