La testimoniaza di Giobbe Covatta, storico testimonial di Amref Italia che racconta la sua quarantena e tutta la preoccupazione per che lo assale in questi giorni per la puara che il coronavirus si possa diffondere anche in tutta l'Africa.
È strano trovarti nella tua casa a Roma, invece che in tournée.
È strano anche per me, ma del resto, se i teatri sono chiusi, io mica posso fare smart-working. È giusto così, quando c’è un’emergenza bisogna adeguarsi, l’interesse personale deve sottostare a quello collettivo.
Come hai reagito?
Ho reagito con timore, preoccupazione e sconforto, ma c’è da fare una considerazione. Al netto del dispiacere che noi tutti proviamo per i malati, per i deceduti, per le famiglie, credo che questa epidemia rimetterà un po’ in sesto l’ordine dei valori. Noi generazioni nate nel dopoguerra, siamo generazioni di immortali, e adesso abbiamo scoperto che non è vero, che non siamo immortali. Noi a Napoli abbiamo avuto il colera, ma non è stata la stessa cosa, e penso e spero che questa volta ci sarà un livellamento dei valori. Le persone inizieranno a capire cos’è più importante e cosa meno importante. Perché quando c’è l’immortalità tutto perde di senso, di significato. Se sei immortale puoi fare tutto, tanto non ti succede mai niente. Quando poi invece le cose ti succedono, allora cominci a pensarci. Pensi a cosa fare, a dove andare… diventa tutto più tangibile.
Come stai vivendo questi giorni? Come passi tutto il tempo libero? Ci sono delle attività particolari a cui ti puoi dedicare?
Dormo tanto, anche se mia moglie continua a svegliarmi la mattina come se ci fossero cose da fare. Scrivo, disegno, cucino, leggo, faccio i modellini delle navi con gli stuzzicadenti, faccio bricolage, aggiusto cose. Si sta a casa, come quando da piccolo mettevo la cera sulle pagine dei fumetti di Topolino, poi aspettavo che si seccasse, e l’immagine rimaneva sulla cera. Stasera abbiamo deciso di giocare a Nomi, cose e città. Si fanno le stesse cose che si facevano quando uno era piccolo e aveva l’influenza. Poi stiamo addestrando il cane: siccome non possiamo uscire, lo stiamo mandando a fare la spesa, alle Poste… per il momento sa solo leccare i francobolli.
C’è un posto in particolare dove ti piacerebbe passare un’eventuale quarantena?
Al mare. In barca! Mi piacerebbe tanto. Anzi, ci andrei subito.
Che speranze hai per il futuro?
Spero che entro Pasqua la situazione rientri e che questa sia solo una pessima Quaresima, ma non ne ho idea. Magari rimarremo chiusi in casa per i prossimi 6 anni e se non muoio col Coronavirus muoio di vecchiaia.
Che paure hai?
I ragni. Anche se direi che mi fanno schifo, più che paura. Si chiama aracnofobia. A parte gli scherzi, un antico proverbio dice che “‘e ‘na manera s’adda murì,” che letteralmente significa che in qualche modo, prima o poi, bisogna morire. E in questo senso, io non ho paura per me stesso, ho paura per gli altri. Per mia mamma, per esempio, che ha 92 anni. E poi mi preoccupa il clima generale del Paese.
E per quanto riguarda la tua carriera?
Io faccio l’artista da quando sono nato. Ho sempre conosciuto momenti di alti e di bassi. In questo lavoro ci sono sempre periodi in cui si lavora tanto e bene, e periodi in cui si lavora poco e male. Non sono uno che si preoccupa di queste cose, anche se in un periodo di crisi, come questo, le persone tagliano le spese superflue, e il teatro è considerato superfluo. Una volta era essenziale, ma ora non lo è più. Ovviamente tutto questo mi colpisce direttamente, ma sono più preoccupato per la mia famiglia.
Sei riuscito a trarre qualcosa di positivo da questi giorni di stasi?
Sto scrivendo tanto e sto con la mia famiglia. In queste situazioni si ritrovano dei percorsi di vita più lineari, meno asfissianti, meno angoscianti. Penso che questa “quarantena” possa avere tanti aspetti positivi.
Che misure precauzionali stai prendendo?
Tutte quelle necessarie. Non esco, resto a casa, mi lavo le mani… niente di più e niente di meno.
Hai paura per la tua Africa? Perché?
Sì. È un sistema precario, soprattutto a livello sanitario. Se in Sud Sudan arriva il Coronavirus, non è che si possono rivolgere al medico di base. Meno strutture ci sono, meno medici ci sono, meno presenza dello stato c’è, e più aumentano i rischi. Tutto è proporzionale a quelle che sono la capacità del paese, e se siamo in difficoltà noi, che abbiamo il sistema sanitario migliore del mondo, figurati il Sud Sudan, che ha il sistema sanitario peggiore del mondo. La speranza, per questi Paesi, non è che riescano a contenere il virus, la speranza è che non ci arrivi. Il problema, dall’altro lato, è che probabilmente ci arriverà.
Ti è mai capitato di incontrare storie, situazioni o altro, in Africa, che ti dessero l’idea della fragilità delle condizioni sanitarie e della precarietà del vivere?
Ininterrottamente. L’Africa è il continente della precarietà. Nella maggior parte dei Paesi africani, quando non ci sono emergenze, la vita scorre in maniera gradevole, perché gli africani hanno un buon carattere, sono persone positive, ottimiste e hanno tanto apprezzamento nei confronti della vita. Il problema è che le emergenze ci sono spessissimo. L’Italia, in linea di massima, ha le spalle sufficientemente larghe per sostenere un’emergenza, o per potersi permettere, dico una banalità, di chiudere il Paese. Ci saranno tante conseguenze, molti si impoveriranno, ma se lo facesse un Paese dell’Africa Sub-Sahariana, abbandonerebbe la popolazione a sé stessa. La precarietà è ciò che fa la differenza tra un Paese del terzo mondo e un Paese con un reddito sicuro e prevedibile.
Un aneddoto che non dimenticherò riguarda una signora Turkana. Ero a Sololo, e lei era seduta in un angolo. Aveva una gamba enorme e tumefatta, probabilmente in cancrena. Io chiesi delle spiegazioni al medico curante, e mi disse che i Turkana sono un popolo nomade. Per questo motivo, se alla signora avessero tagliato la gamba, non avrebbe più potuto seguire la sua tribù e sarebbe morta di fame, ma se non gliela avessero tagliata, avrebbe seguito la sua tribù e sarebbe morta di setticemia. La signora stava pensando non a quale potesse essere la soluzione migliore per guarire, ma a quale potesse essere la soluzione migliore per morire. Non me lo dimenticherò mai.
Un’altra volta offrimmo un passaggio a una donna che cercava aiuto per suo nipote, a cui si erano riempiti gli occhi di sabbia, a seguito di una tempesta. Probabilmente non sapeva neanche lei dove lo stesse portando, ma lo portava. Tra noi, c’era un medico, che si mise a pulire gli occhi al bambino non appena possibile. Quando gli aprì le palpebre, scoprì che sotto non c’erano più gli occhi. Era diventato cieco. La donna era partita più di una settimana prima, e nel frattempo le infezioni avevano mangiato gli occhi del bimbo. Le riprese di questo evento non sono mai state pubblicate da nessuna parte, anzi, non sono mai neanche state montate.
Insomma, per trovare situazioni precarie non c’è da cercare troppo. Ma è difficile parlare di Africa. Lo dico sempre. Ci sono Paesi in cui tutto funziona abbastanza bene, ci sono Paesi più poveri e altri meno poveri. Non si può parlare di Africa come un unico sistema uniforme.
Che effetto ti ha fatto sapere che alcuni Paesi africani ci invitavano a non andare?
Ovviamente, tutti quelli che ci hanno invitato a non partire, non l’hanno mica fatto con cattiveria, ma per evitare l’espansione del virus. Più la percentuale di contagio è alta e più l’espansione è ampia, e meglio è starsene a casa propria. Non è una questione di simpatie, vale per tutti, per evitare che il virus vada in giro per il mondo. E ancor di più per gli africani. Se portiamo il virus ai Sud Sudanesi, il Paese è rovinato. Si devono giustamente proteggere.
Rivolgi un messaggio all’Italia.
Ma per chi m’avete preso, il Papa?
Rivolgi un messaggio all’Africa.
Il mio messaggio per l’Africa è un messaggio di speranza e di solidarietà, non di consigli. Non sono un medico, sono solo vicino all’Africa.
L'intervista è stata raccolta da Amref Italia
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