«Il Covid-19 pone tutto il mondo dell’educare, non solo la scuola, di fronte a una biforcazione. O si va verso una crescita delle disuguaglianze educative, della povertà educativa, del fallimento formativo, oppure vi è una vera inversione di tendenza che ci porta verso una scuola nuova, ad un tempo aperta, egualitaria e rigorosa, dove si impara meglio, entro la prospettiva di comunità educanti larghe e evolute». Esordisce così il documento del Forum Disuguaglianze Diversità per la riapertura delle scuole, che chiede «un’alleanza civile e politica per la riapertura di scuole e spazi di vita e apprendimento per tutti i bambini/e e ragazzi/e». A redigerlo, a inizio maggio, Marco Rossi Doria, che lo presentava così: «È il frutto di dibattito e riflessione comuni tra tanti/e che lavorano sul campo, nelle scuole, nel terzo settore e nel civismo educativo, nei comuni. Affronta le questioni per l'oggi e per il domani, con al centro l' impegno contro disuguaglianze e povertà e per innovare la scuola».
Già, perché l’estate che abbiamo dinanzi e l’anno scolastico dovrà essere «“un anno costituente” entro un lungo periodo di ricostruzione e innovazione», ed è «importante che anche nelle istituzioni [li] si pensi in questo modo». «Molti, purtroppo, pensano a questa situazione come a una mera parentesi da chiudere presto per riprendere come prima […] Vi sono e vi saranno resistenze e passaggi conflittuali ma questa crisi apre una nuova stagione di impegno per la scuola inclusiva, innovata, rigorosa. E, del resto, “se non ora, quando?”». «La crisi è emergenza e, al contempo, occasione unica per poter finalmente “mettere mano” a un’azione generale di contrasto di “dispersione scolastica” e povertà educativa», dice Marco Rossi Doria, appena entrato nella squadra dell’impresa sociale Con i Bambini come vicepresidente. «Mai come ora “serve tutto il villaggio” per accompagnare ogni bambino/a e ragazzo/a nella crescita e la creazione di comunità educanti territoriali, tra scuola e fuori, diviene una prospettiva promettente, ben oltre l’emergenza. Le scuole sono dentro le città; nulla di quel che riguardi la scuola, i suoi spazi, i suoi orari e i suoi ritmi e per andare e venire a/da scuola può essere letto a prescindere dal fatto che tutta la città ne è coinvolta. La relazione tra scuola, comune e soggetti del privato sociale o civismo attivo è la chiave di volta non solo per la partecipazione al processo di ripartenza ma perché possa funzionare». Parole da mandare a memoria per tutti questi mesi cruciali, in cui si deciderà – volenti o nolenti – il modello futuro della scuola e dell’educazione dei nostri figli.
Qual è la prima questione sul tema “riapertura”?
La prima questione è ripartire da tutti, con una speciale attenzione per alcuni che per vari motivi sono stati esclusi in questi mesi, molto varia a seconda dei territori, ma è innegabile che la scuola ha avuto diverse “perdite di contatto”.
«Mai come ora “serve tutto il villaggio” per accompagnare ogni bambino e ragazzo nella crescita. La creazione di comunità educanti territoriali, tra scuola e fuori, diviene una prospettiva promettente, ben oltre l’emergenza. La relazione tra scuola, comune e soggetti del privato sociale o civismo attivo è la chiave di volta non solo per la partecipazione al processo di ripartenza ma perché possa funzionare
Marco Rossi-Doria
Alunni con disabilità, con cittadinanza non italiana, in povertà educativa…
Esatto. Nelle scuole abbiamo 284mila alunni con disabilità e 270mila insegnanti di sostegno, alcuni sono stati raggiunti ma altri no, è oggettivo, si tratta di fragilità difficili da gestire in lontananza, basti pensare al ragazzino autistico, alla sfida di mantenere l’attenzione di un ragazzino con la Sindrome di Down, a chi ha problematiche sensoriali… Questa cosa va recuperata, non solo in termini di competenze ma innanzitutto di relazione educativa e sociale. Poi ci sono gli 830mila circa alunni stranieri: anche qui le situazioni sono differenziate, quelli di seconda e terza generazione sono diversi da quelli neoarrivati. Poi ci sono le famiglie in povertà, quelle vivono con molti figli in condizioni abitative piccole, con un cellulare per tutti… E ancora le famiglie che stavano prima della crisi appena un po’ al di sopra della soglia di povertà, working poors che stanno in gran parte scivolando verso il basso, gli irregolari. C’è il grossissimo tema della caduta dell’orizzonte di speranza, il sentirsi un lavoratore costretto a chiedere i pacchi alimentari… Altre situazioni ancora sono quelle delle zone interne, dove in gran parte manca una rete adeguata. Il ministero ha stanziato 85 milioni, le scuole hanno dato device in comodato d'uso ma c’è il tema da risolvere subito di una connessione gratuita su tutto il territorio nazionale per tutti, come se fossimo in aeroporto. E in tutte le famiglie povere, ogni figlio deve aver un computer di Stato come avvenne con il chinino di Stato ai tempi della malaria, perché è un diritto di cittadinanza. Si è fatto il contributo per i monopattini, a me pare che questa sia una proposta di grande urgenza.
Quale ruolo per la didattica a distanza?
La scuola a distanza sperimentata in questi mesi non basta, ma mostra che è possibile fare scuola in modo diverso grazie all’innovazione pedagogica, che non è solo innovazione digitale. È invece centrata su come si impara (learning centred), su processi di apprendimento circolari e cooperativi, sulla motivazione cognitiva ed emotiva. La didattica a distanza non è la panacea, ma la scuola “normale” – che è una comunità di relazione educative – può integrare il digitale, come facciamo tutti nella vita di tutti i giorni. L’importante è non dire o credere che la DAD sia equiparabile alla scuola in presenza, perché l'apprendimento si crea nella cooperazione, nell’emozione del gruppo di pari, nei piccoli rituali della socialità… Questo è qualcosa di insostituibile. Ovviamente ci sono cose positive che abbiamo appreso in questi mesi, la sfida è considerare la resilienza non solo come la capacità di tornare alla posizione di partenza dopo un forte stress, ma come qualcosa di fortemente innovativo.
C’è da risolvere subito il tema di una connessione gratuita su tutto il territorio nazionale per tutti. E in tutte le famiglie povere, ogni figlio deve aver un computer, come avvenne con il chinino di Stato ai tempi della malaria, perché è un diritto di cittadinanza
Quali sono gli aspetti positivi da portarci nel futuro?
Una prima cosa è che nella circolarità della didattica a distanza i preadolescenti spesso hanno saputo includere i loro compagni. Non sempre, non ovunque, ma è avvenuto. È un po’ scemato il bullismo, c’è stata più cooperazione, se gli insegnanti sono stati attenti si sono inclusi di più i ragazzi più timidi e silenziosi… I preadolescenti andavano verso il mondo e hanno avuto un arresto evolutivo fortissimo: i compagni che hanno chiamato e hanno convinto a rispondere quando tu non rispondevi sono stati preziosissimi. Un’altra cosa importante è che le famiglie sono state coinvolte nella scuola, c’è stato un moto di riconoscimento reciproco dopo anni di conflitto. Riconoscimento e in molti casi anche riconoscenza, con l’una e l’altra parte che si sono accordate per mantenere un legame che non è stato primariamente di apprendimento ma di relazione. È qualcosa che se siamo minimante accorti va salvaguardato, soprattutto perché arriva dopo una lunga stagione in cui stavamo su una china totalmente diversa. La terza cosa è che i computer, la rete, le app, il digitale sono entrati nella normalità della scuola, insieme all’idea che si possa lavorare per piccoli gruppi e costruire un apprendimento anche a distanza. Nel bene e nel male penso sia finita la stagione dei “pionieri" dell’innovazione tecnologica: il digitale sarà uno degli strumenti insieme al quaderno e al libro. Il civismo dentro la rete, la verifica delle fonti, la vigilanza contro le fake news, la costruzione del sapere in maniera critica non è più di una minoranza ma alla portata di tutti, nella ordinaria quotidianità della scuola. A patto di non mitizzare tutto questo come l’altro modo di fare scuola, opposto alla presenza: questa operazione sarebbe pericolosa.
Quali indicazioni concrete per immaginare una scuola diversa?
Davanti agli occhi dei nostri ragazzi, per settimane, sono passate tutte le discipline del sapere, nel loro intreccio. I ragazzi hanno visto che tutto si tiene insieme: la statistica, l’etica, la scienza, la matematica, l’economia, la geografia… tutti questi saperi si sono messi insieme per cercare di risolvere la crisi. La scuola dovrebbe prendere questo messaggio, dal punto di vista della sua prima missione, che è l’apprendimento, non è pensabile il tornare alle discipline a comparti stagni, che non ha corrispondenza nella realtà dell’umanità. Se si vuole che questo sia – come ha detto anche Bianchi – un anno costituente, questo anno dovrebbe avere come prima caratteristica la possibilità che gli insegnanti sperimentino la transdisciplinarietà in termini molto rigorosi, mettendosi in gioco e studiando il Coronavirus come materia trasversale a tutte le materie, dalle parole del Papa alle questioni statistiche.
Non è pensabile il tornare alle discipline a comparti stagni, che non ha corrispondenza nella realtà. Se si vuole che questo sia – come ha detto anche Bianchi – un anno costituente, questo anno dovrebbe avere come prima caratteristica la possibilità che gli insegnanti sperimentino la transdisciplinarietà in termini molto rigorosi, studiando il Coronavirus come materia trasversale a tutte le materie, dalle parole del Papa alle questioni statistiche.
Un secondo elemento?
Va portato il riconoscimento delle emozioni, del vissuto di questi bambini e ragazzi. Di chi ha perso i nonni e di chi ha avuto paura per loro. Ma anche di chi ha avuto paura per il proprio futuro, perché non possiamo fingere di non vedere che si è messo un buio fra i nostri ragazzi di oggi e quell’orizzonte di speranza e attesa che sono loro da grandi. Tutto questo va elaborato. Dare parola a tutto questo diventa fondamentale, bisogna darsi un tempo disteso per esprimere tutto questo, tutti, perché anche chi in questi mesi è stato iperattivo poi avrà un contraccolpo, mentre chi si è già rinchiuso ha bisogno di elaborare insieme ai compagni ciò che ha vissuto. Quale altro posto se non la scuola per farlo? Non sarà tempo perso quello di dedicare nelle scuole una quota consistente di tempo a parlare di questo e a portarlo a parola in vaie forme, dalla scrittura al teatro al movimento. E poi servirà parlare con ogni singolo bambino e ragazzo e fare un vero recupero, perché chi è rimasto indietro ha diritto a recupero, dandosi almeno un anno di tempo: si potrà fare in gruppo ma non con classi differenziate.
Non possiamo fingere di non vedere che si è messo un buio fra i nostri ragazzi di oggi e quell’orizzonte di speranza e attesa che sono loro da grandi. Tutto questo va elaborato. Dare parola a tutto questo diventa fondamentale, dandosi un tempo disteso per farlo
La comunità educante può essere davvero l’orizzonte del modello futuro di scuola e di educazione?
Dove prima dell’emergenza sanitaria la comunità educante non era solo la scuola e la amiglia, dove collaboravano già insieme scuola, associazioni, parrocchia… quasi nessuno è stato perso. Gli educatori hanno fatto un lavoro straordinario in accordo con gli insegnanti e sono riusciti a raggiungere tutti o comunque molti più ragazzi di quanti la scuola da sola avrebbe potuto fare. Là dove la sussidiarietà non è qualcosa di astratto o scritto solo nell’articolo 118 della Costituzione, dove si dice che i cittadini si attivano per fare cose di interesse generale, questa pratica diffusa ha consentito nella crisi di affrontare meglio la situazione. Anche quando si ritornerà in presenza, tutti possono essere meglio raggiunti da un’alleanza che vede insieme i Comuni – titolari dei servizi 06 e dell’obbligo di istruzione – i servizi per i minori, le autonome scolastiche… le alleanze però non devono essere fatte solo per trovare spazi aggiuntivi per ottemperare alle regole sul distanziamento, per cui usiamo gli spazi della città finché sarà necessario e poi grazie arrivederci si torna in classe. Devono essere alleanze vere, stabili, al di là dei bandi e dell’obbligo di distanziamento.
Ora è vice presidente di Con i Bambini, che lei ha definito «un grande cantiere per l’eguaglianza in educazione». E torniamo alla sfida di questo tempo, scegliere se accettare di andare verso una crescita delle disuguaglianze educative e della povertà educativa o verso una scuola nuova, nella prospettiva di comunità educanti larghe e evolute.
Sono molto onorato, ma le responsabilità sono grandi. Con i Bambini si è messa sulla frontiera dall’innovazione, si tratta di riflettere insieme ai partner dei tanti progetti in corso – che non comprendono solo il Terzo settore – per vedere che cosa funziona di più e meglio e di aprire un grande dibattito pubblico perché se perdiamo almeno un terzo dei ragazzi in situazioni di minorità il paese non riparte. Questo è un punto cruciale: così grandi disuguaglianze non solo penalizzano le persone, ma condizionano lo sviluppo economico del Paese, perché non fai innovazione tecnologica e non aggredisci i mercati se un terzo della tua popolazione vive situazioni di esclusione più o meno forte e multifattoriale. È una partita grande, da giocare con grande determinazione. Serve aprire un fronte culturale, parlare con tutti, non solo con il sociale: con le imprese, la Pubblica Amministrazione, la politica, le istituzioni religiose, con tutti… alcuni hanno sensibilità maggiori, altre pensano che la giustizia sociale sia un “condimento” delle politiche di sviluppo. Noi abbiamo bisogno di invertire il paradigma: se c’è sviluppo sociale e ed educativo, ci sono le solide premesse per uno sviluppo economico. Per farlo serve creare grandi alleanze trasversali, questa è una responsabilità condivisa. Credo che Con i Bambini in questi anni abbia fatto anche questo sforzo, basta vedere i numeri dei progetti, dei partner coinvolti, dei bambini e delle famiglie raggiunte. Si parte da un’esperienza ricca. Si può fare.
Oggi si parla molto di comunità educante – ossia di questa sinergia tra scuola, comune e soggetti del privato sociale o civismo attivo – come chiave di volta non solo per avviare il processo di ripartenza ma perché esso possa funzionare. Lei però tante volte ha pungolato le reti territoriali e i partenariati a fare il salto verso una “comunità educante evoluta”. A che punto siamo?
È una dicitura che rubo da un’esperienza di Palermo, che lavora alla Zisa e Danisinni. Quali sono gli ingredienti per dirsi “evoluti”? La capacità di riflettere sul proprio operato, di integrare i diversi pezzi fra loro, l’immaginare strade per dare stabilità ad alcune azioni. Il Forum Disuguaglianze Diversità ha iniziato a usare l’espressione “sviluppo educativo locale”, proprio per mettere l’accento sulla parola sviluppo e su quel ribaltamento di prospettiva che dicevo prima: non è pensabile mettere in moto un vero sviluppo economico in una situazione con tanta disuguaglianza.
Con i Bambini ha una dimensione sperimentale, con l’ambizione di sperimentare alcune strade, fare valutazione di impatto e quindi individuare alcuni elementi che possano essere la base delle future politiche contro la povertà educativa: a che punto siamo?
Non si possono trovare ricette sempre giuste e sempre uguali, non c’è uno schema lineare di quello che funziona e quello che non funziona. Ci sono i contesti, le persone, la grande e importante competenza di modificarsi in corso d’opera, documentando come hai risposto all’evoluzione dei bisogni dei bambini. Puoi forse escludere le cose che non funzionano, ma anche questa che apparentemente è la cosa più semplice implica un modo partecipativo di riflessione, un metodo, il fatto che tutti siano coinvolti… Valutarsi è un compito. Quello che è importante è creare e mantenere l’attitudine a riflettere su proprio operato, essere molto rigorosi su obiettivi e finalità, ma il modello non è e non sarà mai rigido.
Foto Mike Enerio, Unsplash
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