Carmine Castoro

Virus, potere, media. Alla ricerca di un’etica della comunicazione

di Redazione

Esperti, conferenze stampa, numeri scanditi come formule magiche: la pandemia ha un aspetto che, nella comunicazione, non possiamo ridurre, banalizzandolo, alla sola "infodemia", ossia alla proliferazione di notizie false. Al contrario, osserva il filosofo Carmine Castoro, la pandemia ci mostra come virus, media e potere giochino un ruolo preciso. Sullo stesso palcoscenico

Accanto alla pandemia, abbiamo assistito a una vera e propria «videocrazia del Covid-19». Lo spiega Carmine Castoro, filosofo, esperto di comunicazione e media di massa, che per Male Edizioni ha da poco pubblicato Covideocracy, un bel lavoro su questo (spinoso) argomento. Lo abbiamo incontrato per riflettere con lui su questa "caduta libera" delle emozioni e delle pulsioni (paura, ansia, fobia sociale) in un contesto dove biopolitica, controllo sui corpi e dell'immaginario sociale si uniscono in una miscela potenzialmente esplosiva per le nostre democrazie.

Per cominciare il nostro dialogo, vorrei partire da una affermazione – tremenda – di Guy Debord nei suoi Commentari alla Società dello Spettacolo (1988): «Il governo dello spettacolo, che attualmente detiene tutti i mezzi per falsificare l’insieme della produzione nonché della percezione, è padrone assoluto dei ricordi e padrone incontrollato dei progetti che plasmano l’avvenire più lontano. Egli regna da solo ovunque; egli esegue le sue sentenze sommarie». Mi pare che questo testo sia ancora oggi molto attinente alla realtà che stiamo vivendo. Che ne pensi?
Che bello anche solo sentir citare Debord e il suo inaggirabile testo La società dello spettacolo, che tanta parte ha avuto nella mia formazione filosofica. Parte di un immenso patrimonio di critica sociale, soprattutto di matrice francese, che la Sinistra, se non fosse cantilenante retorica e cialtrona, farebbe bene a recuperare al più presto per dire qualcosa di più coinvolgente alle masse. Sì hai ragione, è ancora molto attinente alle sfide della contemporaneità, soprattutto per la felicissima incontrovertibile intuizione di Debord che fa convergere il potere “concentrato” e quello “diffuso” dei mercati in una spettacolarizzazione “integrata” che adultera nell’intimità le nostre scale valoriali, le nostre percezioni, la nostra spazio-temporalità.

Quando Debord afferma disperatamente che "il vero è un momento del falso", si può dire che ci troviamo di fronte a due processi di falsificazione perfettamente punzonati uno sull’altro: quello classico del tradimento e dell’occultamento di qualcosa di “vero” che non si vuole rendere di pubblico dominio, distorcendolo ad arte; e quello più alto e sferico, estremamente contemporaneo, basato sull’impersonalità di un “si” vede, “si” dice, “si crede” che è la galassia dei segni che si auto-implementa. L’Immagine, la fatalizzazione del Bios naturale e sociale, la monetizzazione delle intenzioni, l’edulcorazione delle libertà non hanno più bisogno oggi di despoti e Spectre, ma fanno da motore immobile dell’Idem sentire. Quello che Agamben in uno scritto durante il Covid ha definito “complotto oggettivo”, categoria estetica alla quale mi allineo perfettamente con le mie ultime opere.

Nel tuo libro ll sangue e lo schermo. Lo spettacolo dei delitti e del terrore da Barbara D'Urso all'ISIS (Mimesis 2017), anticipavi – direi mirabilmente – la gestione della paura attraverso i media come strategia capillare di controllo emozionale attraverso cui il sistema arriva a difendersi da ogni possibilità di rovesciamento, dicendo in ogni momento chi dobbiamo essere, come dobbiamo usare le nostre energie, e soprattutto chi sono i nostri "veri" nemici da combattere. Quali erano le "ragioni"di quel libro e cosa c'è di ancora "attuale"?
È evidente che il potere oggi ha mutato sintassi, effigi, simboliche, piattaforme di lancio e di atterraggio. Non dimentichiamo il Foucault degli studi sugli “uomini infami”, quando dice: “Smantellare il potere sarebbe probabilmente molto facile, se si limitasse a sorvegliare, spiare, sorprendere, proibire e punire; ma esso incita, suscita, produce: non è semplicemente occhio e orecchio, fa agire e parlare”. Amministrazione, scienza e giornalismo – ci dice in tempi profetici per il Covid – tradurranno in termini di osservazione e neutralità ciò che era la teatrale maledizione e sovversione dei Grandi Esclusi dal sistema. Il deviante diventa un “caso” da feuilleton – come fa la D’Urso ogni sacrosanto giorno -, al massimo una cifra in un sondaggio, un insetto da mettere sul vetrino. Oggi la biopolitica è realismo perfetto. Un potere che non è più patibolare, patologico, principesco nelle sue cinghie supplizianti ma, al contrario, palliativo, permissivo, proiettivo, pro-attivo. Penetrante in ogni fibra del nostro essere. Prescrittivo in quanto preventivo.

Un regime che è un re-gym: ginnastica dell’anima, degli sguardi, delle posture esistenziali, delle progettualità inconsce, delle emozioni millimetricamente gestite, degli obblighi introiettati. Sotto Covid abbiamo immediatamente assorbito costrizioni ipersegmentate, bollinate, disperse e contraddittorie perché siamo da tanto tempo preda di una flessibilità amorale che non ha più né elementi di distinzione né di dissonanza.

In un lavoro precedente, Clinica della tv. I dieci virus del tele-capitalismo. Filosofia della grande mutazione (Mimesis 2015, elencavi invece le patologie di un tele-capitalismo che ci vuole: "atleti del futuro, idioti aggiornati, clienti compulsivi, concorrenti ambiziosi di casting e show, satelliti impazziti e contenti di un Mondo 3.0 dove l'ottica e il riciclaggio delle forze assorbono tutta la nostra vita". C'è un aggiornamento da fare o l'elenco è sempre lo stesso?
Resta tutto uguale, purtroppo, e con somma disperazione. Potremmo aggiungere altre mutazioni antropologiche figlie della diffusione massiccia e sussidiaria dei social: i selfisti patologici (donne, soprattutto, che passano la vita a inquadrare la stessa faccia, con lo stesso trucco, la stessa espressione, gli stessi occhiali, o piegate nei modi più pruriginosi per specchiare le loro fattezze fisiche e raccogliere centinaia di follower), i “buongiornisti” (che salutano il mondo credendosene l’ombelico), i visualizzatori senza risposta sulle chat (che pensano che la vita on line risponda a criteri dissimili e paralleli rispetto alle normali buone maniere della vita reale, e vedono anche in un ciao o in un complimento un attacco alla persona), i tuttologi che imbracciano post e bacheche come fossero mitra o titoli ad Harvard.

Dove c’è informazione attendibile, verificata, polifonica, che combatte l’improvvisazione dei webeti e dei cacciatori di profitto, automaticamente c’è cittadinanza, reciprocità, legame, ricchezza morale, gioia che supera la tragedia. La verità non porta solo certezza del fatto e trasparenza delle fonti; porta soprattutto nel suo farsi dinamico il fiore fresco e profumato della relazione, della soggettivazione non alienata, dello sguardo incrociato non sospettoso e perplesso, ma potente e irredento. La piega della scrittura sociale dobbiamo cercare, non patire la piaga della sua ignobiltà e inconcludenza indotte

Carmine Castoro

Ma aggiungerei, dopo il Covid, anche gli “isolati fiduciari” e i “sorvegliati attivi”. Sono tutte figurazioni sghembe, eccessive e tumefatte della vita quotidiana e dei nostri rapporti coi linguaggi radiali del potere, che acchiappano l’io in un forcipe di dissoluzione, esaltata o depauperata, mai ragionevole, costruttiva, partecipata, costipandolo al centro di fasci di energie, dinamiche interattive e ondulazioni della volizione e del sentire che vengono imbrigliate, canalizzate, bypassate alla fonte dai nuovi labirinti del consenso, sempre più statistici e ottici e culturalmente disintermediati. La tragedia del presente è tutta qui.

Leggendo i tuoi scritti, ho sempre avuto l'idea che dietro la tua capacità modernissima di saper leggere le narrazioni mediali, ci sia un tentativo – non so quanto voluto – di fondare una "etica della comunicazione" che sia capace di veicolare valori, competenze, passioni civili. MI sbaglio?
Non sbagli affatto. Se ben ricordi il film The Joker, c’è la famosa scena in cui quello che sarebbe diventato il sanguinario paladino dei reietti e degli straccioni, massacra con accanimento feroce il suo datore di lavoro, ma salva il nano al quale, tremante di paura, dice: “puoi andare, non ti uccido, tu sei sempre stato gentile con me”.

Ecco, la gentilezza nella comunicazione è un dato da recuperare: la nobiltà del trasmettere, la sacralità della parola, la missione del comprendere e del condividere, la cura lenitiva e trasformativa del capire per ricucire le ferite sociali che sono ancora in piena emorragia come ignoranza, delinquenza, anti-solidarietà, miseria umana ed economica, individualismo, disinformazione, inganno mediatico, ritardo cronico in una più generale civiltà dello stare insieme con responsabilità, creatività, generosità, dispendio e aiuto. Dobbiamo ricreare una aristocrazia del logos, oggi infangato dai manipolatori in doppio petto e sorriso telegenico che, non a caso, Eco inquadrava come i veri sacerdoti del “fascismo eterno”.

Veniamo al tuo ultimo volume: Covideocracy. Virus, potere, media. Filosofia di una psicosi sociale (Male Edizioni 2020). Che cos'è lo "stato infiammatorio dell'opinione pubblica" (p. 5) e soprattutto: da chi e perché è causato?
Oggi il Capitale non investe più, o non solo, su territori merci e corpi in senso fisico, anatomico, molare. Oggi l’estensione è stata quasi del tutto sostituita dall’elemento intensivo, intenzionale, interattivo. Creare fasi di sincronizzazione e mobilitazione, somministrare “verità” con una emivita politicamente ed economicamente conveniente, far fare cose facilmente inquadrabili e soppesabili a quanta più gente possibile, destabilizzare l’elemento critico-valutativo e ingigantire quello geometrico-quantitativo, ecco il diktat dei processi conservativi oggi.

Dunque, l’opinione pubblica non va istruita, acculturata, svezzata dall’ignoranza e dalla creduloneria, allontanata dalla fabbrica dei sogni e dei mostri. Tutt’altro. Il suo virare di qua e di là viene deciso secondo tettoniche, incandescenze momentanee, sondaggi e agende setting, condizionamenti discreti, immanenze felici, paesaggi mentali che escludono il “nocivo”. Come quando dopo il restyling di un grande supermercato nel mio quartiere a Roma dove ero solito rifornirmi, ho ritrovato tutto abbellito e ripulito e come prima, tranne l’enorme scaffale di libri giornali e fumetti che produceva forse meno quattrini: un intero pezzo consistente dell’immaginario del consumatore era stato messo in eclissi, e tutto ridotto a scatolame verdure e cosmetica. Una campagna soft per l’oblio del pensare si attua anche così, con i tetris silenti del visibile e dell’invisibile. Il Potere oggi è una scenotecnica.

Che cosa impareremo dal contagio? Soprattutto per quanto riguarda l'aspetto della comunicazione pubblica?
Come dico nel libro, il Covid è stato il capofila di una drammatizzazione globalizzata turbocompressa di tipo allarmistico, terroristico, ultralocalistico, difensivistico. Dunque, negazionismi e complottismi che aborro a parte, siamo stati indotti a pensare il virus come un flagello venuto da chissà dove, a duellare con la morte come se l’avessimo scoperta per la prima volta, a stravolgere la nostra quotidianità secondo la “nuda vita” e non secondo orizzonti di senso – che infatti oggi ci parlano di economie fiaccate, migliaia di posti di lavoro persi, marginali ancora più marginalizzati dalla malattia, prospettive di sviluppo azzerate, picchi di suicidi e violenze domestiche, esistenze smarrite.

Ecco, in perfetta linea con la pseudo-informazione cui ci abbeveriamo ogni giorno, abbiamo perso la filiera delle cause e delle soluzioni condivise in chiave comunitaria, dei significati storici e delle responsabilità politiche, e ci siamo fatti sommergere solo dalle evidenze pilotate, dalle paranoie, dai titoloni dei media ben contenti di guadagnare sullo spavento della gente, dal tracollo della nostra incolumità, da bollettini di guerra, da immagini fortemente sbilanciate verso lo “scandalo” del dolore nelle corsie, degli agonizzanti, dei lutti a catena. Continuiamo a patire questo stato di cose semplicemente perché un giornalismo amputato, morboso e spettacolarizzato ci ha fatto ignorare sin da tanto tempo fa la complessità e la fragilità della vita di ciascuno. Come diceva il grande Paul Valery in un saggio di inizio Novecento sulla crisi del pensiero europeo: “Noi, le civiltà, ora sappiamo che siamo mortali”.

Vorrei concludere questo nostro interrogarci, condividendo un passaggio del tuo testo che interroga chiunque si occupi di "sociale". Ci troviamo dunque in «uno scenario mondiale di non sostenibilità, di incuria e di scarsa porosità a tutto quanto sia realmente comunitario, cooperante, co-generato, co-gestito. co-vi(d)sibile: lo Stato che si disinteressa della sua terzietà, l'assistenza pubblica che reclina, i servizi al cittadino che sono castelli kafkiani, la sanità che deve reinventarsi in temporalità ristrette per un'atavica mancanza di pianificazioni» (p. 198). Come i media aiutano il sociale a ritrovare il "senso del proprio agire"?
Dove c’è informazione attendibile, verificata, polifonica, che combatte l’improvvisazione dei webeti e dei cacciatori di profitto, automaticamente c’è cittadinanza, reciprocità, legame, ricchezza morale, gioia che supera la tragedia. La verità non porta solo certezza del fatto e trasparenza delle fonti; porta soprattutto nel suo farsi dinamico il fiore fresco e profumato della relazione, della soggettivazione non alienata, dello sguardo incrociato non sospettoso e perplesso, ma potente e irredento. La piega della scrittura sociale dobbiamo cercare, non patire la piaga della sua ignobiltà e inconcludenza indotte.

Altrimenti ci troviamo in un lessico finto, cariato, desertificato, banale e venale, che porta al truce omicidio di Colleferro, per esempio, dove è chiaro che giovani allo sbando, affogati nel nulla degli schermi e dei modelli televisivi, non sanno più cosa sia l’arte del dialogo, dell’empatia e della vicinanza. Seguo con odio viscerale da anni le vicissitudini televisive di una conduttrice famosa come Maria De Filippi. Ebbene, nella primissima puntata di “Uomini e Donne” di quest’anno – format seguitissimo dai giovani, che sfiora quasi il quarto di secolo, circa 25 anni di messa in onda -, si ricostruiva il percorso di maquillage estetico di una vecchia di 70 anni, tal Gemma, le cui disfatte amorose, fra pilotaggi autorali e menzogne compiaciute, l’hanno resa un “personaggio” nelle ultime dieci edizioni. Le telecamere la accompagnavano dal chirurgo estetico per un lifting, per tornare bella in viso, per togliere la stanchezza della quarta età, la seguivano fin nel lettino d’ospedale e nelle visite pre-intervento senza pudore, e il suo rientro in studio era atteso con colonne sonore disneyane come una palingenesi legittima, imitabile, fiabesca.

Ecco, su questa tv oscena bisognerebbe intervenire a livello istituzionale alto. Basaglia sulle violenze psichiatriche pre-180 diceva che erano “crimini di pace” perché perpetrate pur senza il fragore delle armi e i bombardamenti a tappeto. Questo intrattenimento full time è letale come un Coronavirus e forse più. Lo show è un dispositivo politico, non dimentichiamolo mai. E i tiranni, in gonnella e non, che scimmiottano la tranquillità di quattro chiacchiere col vicino di casa, sono degni di una nuova Norimberga dell’era virtuale.

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