Leo Lestingi

La tenerezza di Dio. Dialogo su Sergio Quinzio

di Redazione

Mentre si moltiplicano i furori apocalittici e, al tempo stesso, crescono gli integrati in una visione pessimista, ma appagata della storia la vicenda intellettuale e umana di Sergio Quinzio è un lascito che va riscoperto

Ricordo di aver sentito parlare di Sergio Quinzio ad Urbino, durante una conferenza all'Istituto di Scienze Religiose "Italo Mancini" che frequentavo come studente. Il nome faceva spesso la sua comparsa nei contesti più diversi e questa "presenza" m'incuriosiva.

Cominciai a leggere tutti i suoi libri. Capivo poco, o forse pochissimo, ma qualcosa nel suo modo d'intendere la fede suscitava nel giovane che ero, ammirazione e desiderio di comprendere. Poi, per molti anni non ho letto più nulla di Quinzio. Da qualche giorno ho riletto il volume curato da Leo Lestingi. Era uscito nel 1997 lo stesso anno del mio arrivo ad Urbino.

Oggi ristampato in seconda edizione con Castelvecchi: Sergio Quinzio, La Tenerezza di Dio (Roma 2020). Vi ritrovo l'essenziale per comprendere la fede "tragica" di Quinzio. E mi pare che lo si possa comprendere meglio solo sé si è passati dal dolore e dalla delusione.

Dell'attesa che si fa sempre più dolorosa dei segni. Quinzio sembra sempre più attuale nelle sua "inattualità". Ne discutiamo con Leo Lestingi curatore del volume.

Nella tua prefazione al volume scrivevi: "Ciò che ha sempre colpito, in Quinzio, è stato, insomma, il suo coraggioso scandagliare l’abisso scandaloso della sofferenza, unito alla volontà irrinunciabile […] di non farne, nemmeno di questo, una ragione sufficiente per cedere alla deriva nichilistica, alla rinuncia alla possibilità del darsi di un senso per la storia e per la singola esistenza". Pensi ancora sia questa la "cifra" di Quinzio?
Sì, è questa la “cifra”, come tu dici, dell’esperienza intellettuale e religiosa di Sergio Quinzio, anche perché la domanda di senso che occupa tutti i suoi scritti ruota attorno alla promessa biblica dell’instaurazione imminente del Regno di Dio, a cui sarebbe seguita la definitiva sconfitta della sofferenza e della morte. Profondamente e seriamente cristiano e, aggiungo, perciò stesso messianico, Quinzio si trova a dover fare i conti con la realtà di un Regno che non viene, perché in questo “frattempo”, fra la prima venuta di Cristo e il suo ritorno, fra il “già” e il “non ancora”, a vincere è la morte. Di fronte a questo abisso, Quinzio, da credente, sembrava restare a vegliare come una sentinella, ma senza consolazione, e, tuttavia, non senza speranza.

Mi ha molto colpito questa affermazione di Quinzio: "Ho sempre avvertito e creduto che l'inserimento e l'appartenenza al mondo della cultura, dove, per muoverti, devi assimilare una quantità consistente di notizie e di nozioni, ti faccia perdere, invece, le domande taglienti e vive che hai quando sei giovane". Quali sono, secondo te, le domande "taglienti e vive" che Quinzio ha rivolto a sé stesso per primo e alla Fede poi?
Nel mio libro-intervista c’è un passaggio dove Quinzio ricorda le “domande” che si poneva già da ragazzo, soprattutto quelle riguardanti l’interrogativo sul dolore e sul destino dell’uomo; e sono quelle domande che non l’hanno mai abbandonato. Circa l'appartenenza al mondo della cultura o comunque di una professione socialmente esposta e riconoscibile, egli rifuggiva da qualsiasi ruolo o immagine; ha voluto essere solo uno scrittore che riflette e soffre sia sul destino della fede nel mondo contemporaneo, sia intorno ai testi biblici, per ritrovare il bandolo della matassa essenzialmente appeso e ancorato ad una fede “sine glossa” e ad una speranza che non è mai venuta meno. Come ha detto una volta Massimo Cacciari, Quinzio è stato un uomo “disperato di non poter uccidere la speranza”…

Quando Quinzio dice: "sono sempre vissuto con questo senso dell’orrore, di qualcosa che contraddice continuamente le aspettative di felicità degli uomini"; sta parlando di un aspetto profondo della sua personalità, oppure, è una posizione "ragionata" sull'uomo e il suo destino tragico?
Se vogliamo comprendere la radicalità e l’”intrattabilità” del suo pensiero, percorso da terribili domande, quelle che angosciano perché sembrano aprirsi sulla vertigine del nulla, è proprio dal “frattempo” che occorre partire, perché Quinzio legge la storia come “attesa”, e pervicacemente spera che sul foglio bianco del tempo-avvenire sia finalmente decifrabile la storia della salvezza. Non saprei rispondere con precisione alla domanda se la sua fosse una posizione “ragionata”, oppure se fosse condizionata dal suo carattere estremamente sensibile e incline al pessimismo radicale.

Direi che per Quinzio nulla è più urgente del riuscire a scoprire e sorprendere il senso, oscuro, nascosto e inafferrabile dell’enorme ritardo del Regno. Direi, anzi, che per lui non si tratta di un semplice ritardo, perché se per Dio il trascorrere dei secoli può essere come un giorno, così non è per gli esseri umani: per loro, infatti, è già troppo tardi, e questo troppo tardi diventa la questione centrale a partire dalla quale il tema dell’attesa assumerà ancor di più un carattere tragico.

La "differenza cristiana" per Quinzio stà nell'eccezionalità della Parola di Dio che sconvolge il mondo e che se viene a tramutarsi in una sorta di correttivo agli eccessi mondani diventa cenere. Tuttavia, ammette anche che "non si dà, nel mondo, e in un mondo così complicato come il nostro, la possibilità di una coerenza cristiana chiara e tutta lineare. A qualche forma di adeguamento con la realtà del mondo che incalza, bisogna sottostare". Che ne pensi?
Mi sembra che sia naturale e anche ovvio quello che dice Quinzio circa la possibilità di una coerenza cristiana tutta lineare, senza sbavature, intoppi, difficoltà e cadute.

L’”adeguamento” di cui parla non è, però, un aderire alla mondanità del mondo e della storia (un mondo e una storia che da Quinzio sono interpretati secondo il senso del "mysteriuminiquitatis" che li pervade); per lui esiste, come diceva Nietzsche, soprattutto un “primato del patire”, rispetto al primato dell’agire.

Quinzio attacca radicalmente la "logica del fare" e sembra essere più attratto dal bisogno di salvezza che da quello di moralità. La Debolezza di Dio ha bisogno dell'aiuto dell'uomo che "sale dal fondo della sua sofferenza, dal bisogno inappagato di giustizia". Per Quinzio c'è sempre qualcosa che viene "salvato dalla gola del leone" e "aldilà della catastrofe, c'è ancora una possibilità". Sono pensieri che condividi, oppure ritieni di dover prendere le distanze?
Già, proprio la logica del “fare” è quella che, secondo Quinzio, farebbe smarrire la differenza cristiana…La salvezza non è per lui una certezza, un dato scontato, capace di consolazione e rassicurazione nel presente. Se essa è davvero evento che, all’ultimo, potrebbe finalmente rivelare la sua potenza redentiva anche nei confronti del passato e di coloro che ci hanno preceduto nella morte, allora è solo ciò che possiamo sperare come conclusione di una vicenda dall’esito incerto e non scontato. Non resta, allora, che la speranza contro ogni speranza, di cui parla Paolo in riferimento ad Abramo.

Cosa resta, nella nostra contemporaneità dell'opera di Sergio Quinzio? Qual'è, secondo te, la sua eredità?
Non saprei se si può parlare di un’eredità che Quinzio ci ha lasciato e che, a mio avviso, non è stata raccolta, forse, da nessuno, come spesso è accaduto nella storia e nella vicenda di autori e personaggi “apocalittici” e, per questo, mai integrati all’interno sia della cultura dominante, sia della stessa Chiesa.

Resta preziosa la sua testimonianza di fede e di speranza nell’annuncio delle Scritture della vittoria di Cristo sul nulla. Ma fra i tempi, fino a che la gloria di Dio non sarà resa manifesta, fino a che Cristo non avrà consegnato il regno al Padre, dopo aver annientato ogni potestà e potenza, come dice Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (15, 24), questa, che è l’ultima parola – l’annuncio della vittoria finale – può essere anche la prima soltanto della fede.

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