«A me non piace l’atteggiamento di chi rivendica: “Io l’avevo detto”. Ma questa volta sono costretto a farlo, perché è da 30 anni che come cooperatore attivo nel settore delle imprese sociali e poi in qualità di presidente di Confcooperative Sanità, conduco una battaglia per una riqualificazione del Sistema Sanitario Nazionale. Il Sistema non funziona nella misura in cui il diritto alla salute dei cittadini italiani non è erogato a sufficienza e coerentemente, quando addirittura viene letteralmente negato». Non usa mezzi termini Giuseppe Milanese: «La tempesta inattesa della pandemia da Covid-19 non poteva che esaltare contraddizioni, incongruenze e inefficienze dello status quo ante e così è stato». Il richiamo a un nuovo modello di sanità territoriale è esplicito. Come spiega in questa intervista.
Quali sono i limiti sanità ospedalocentrica al di là di quelli emersi nella gestione della pandemia ormai evidente? Ovvero: questo sistema non funziona perché è arrivato il Covid oppure non funziona in assoluto e il Covid ha fatto emergere in modo drammatico le inefficienze?
A me non piace l’atteggiamento di chi rivendica: «Io l’avevo detto». Ma questa volta sono costretto a farlo, perché è da 30 anni che come cooperatore attivo nel settore delle imprese sociali e poi in qualità di presidente di Confcooperative Sanità, conduco una battaglia per una riqualificazione del Sistema Sanitario Nazionale. Il Sistema non funziona nella misura in cui il diritto alla salute dei cittadini italiani non è erogato a sufficienza e coerentemente, quando addirittura viene letteralmente negato. E non si tratta dell’apocalittico j’accuse di Giuseppe Milanese, ma di un ragionamento che parte da lontano. La prima sollecitazione autorevole risale al 1978 ed è dell’OMS (Dichiarazione di Alma Ata) che, perentoriamente, sollecitò i Governi ad implementare un sistema di cure primarie a sostegno sussidiario degli ospedali. «Ora o mai più», fu scritto, ma quei termini sono valsi molto meno di sospiri al vento. Se un modello – quello che definite «ospedalocentrico» – non ha funzionato per così dire in tempo di pace, perché dovrebbe funzionare nel pieno di una guerra? Mi spiego: la tempesta inattesa della pandemia da Covid-19 non poteva che esaltare contraddizioni, incongruenze e inefficienze dello status quo ante e così è stato. Con il drammatico carico di una ingiusta mole di morti supplementari, che hanno fatto saltare le statistiche, e mi riferisco alla popolazione anziana e fragile che viene falcidiata da mesi. Questo è inaccettabile, tanto più perché in questo tristissimo momento della Storia ho rilevato una inclinazione ad assecondare quella che il Santo Padre definisce la «cultura dello scarto»: i vecchi sono improduttivi ed anche costosi per la società, sono destinati a morire, allora accettiamo che muoiano, senza strapparsi troppo i capelli. Ebbene, questa è la strada per condannare noi stessi – e le più giovani generazioni – ad una deprivazione etico-culturale che segnerà per sempre e in negativo il tempo che ci spetta.
Cosa si intende concretamente quando si usa la dicitura "sanità territoriale"?
La cosiddetta "sanità territoriale" è lo strumento di implementazione del SSN che vale, per tornare alla mia allegoria, in pace e in guerra. Ora noi combattiamo il Covid e, dopo enormi criticità iniziali, sembriamo aver imparato come affrontarlo: sul fronte ospedaliero per curare chi ha reale necessità di essere ricoverato, chi purtroppo ha bisogno di terapie intensive o semintensive, e su quello territoriale per contenere il contagio, consentire i recuperi, limitarne la letalità. Se da un lato abbiamo in qualche modo appreso la logica dell’ingaggio, scontiamo certamente ogni sorta di ostacolo materiale a configurare una controffensiva adeguata e questo, per tornare ai cahiers de doléance, per ragioni che sono scritte a lettere di fuoco nella Storia del Paese. Non intendo politicizzare una nevralgica questione di diritti costituzionali, ma probabilmente vedrei nel Titolo V la causa originaria del problema. Oggi noi ci ritroviamo, approssimo per esemplificare, con tanti sistemi sanitari quante sono le regioni italiane, col risultato di una mappa di salute a macchia di leopardo, ingenerosa per uno Stato del nostro rango, e con una specie di assistenza troppo spesso assegnata attraverso gare al massimo ribasso, notoriamente foriere di cattivi servizi o malaffare. Non è un’idea originale di Milanese o del movimento cooperativo, quanto una lunga filiera di ragionamenti inanellati nel corso degli ultimi 40 anni (40!) dai più autorevoli enti nazionali ed internazionali, e mi riferisco, in ordine sparso, tanto all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, quanto alla nostra Corte dei Conti. L’argomentazione è quasi banale, eppure nessuno tra gli amministratori della cosa pubblica e del Pianeta Salute in particolare avvicendatisi nei lustri ha inteso mettere mano ad una riforma del sistema. Fondata su una ordinata e coordinata e dunque funzionale ripartizione delle competenze: il sistema sanitario pubblico si occupi delle acuzie, il sistema di sanità territoriale (o assistenza primaria) gestisca, in funzione di coerente continuità, le cronicità, altrimenti relegate ai margini di uno strapuntino. E quindi condannate a vivere male e morire prima o peggio.
Quali sono le cosa da fare subito, affinché il sistema in futuro sia meglio rispondente alle necessità di una pandemia come quella che stiamo vivendo ed eventualmente di altre che vivremo in futuro?
Noi abbiamo elaborato un modello di assistenza territoriale che ci sembra logico e logicamente efficiente, riassumibile nel «paradigma delle 5R». La faccio breve. Urge: una Regia nazionale unitaria per l’assistenza primaria, attraverso cui lo Stato assuma il ruolo di programmatore e controllore; che si stabiliscano Regole certe ed omogenee su scala nazionale per i processi di autorizzazione e accreditamento, in modo da superare definitivamente il sistema delle gare d’appalto; che si distinguano e si definiscano i Ruoli, innanzitutto tra la parte pubblica e gli erogatori privati e poi tra le diverse tipologie di operatori, che siano soggetti pubblici, privati o del privato sociale, tra cui certamente la cooperazione; che si implementino Reti di assistenza integrate e multiprofessionali, costituendo un modello reticolare i cui snodi siano presidiati da medici di medicina generale, specialisti, farmacisti, infermieri, tecnici della riabilitazione, operatori sociosanitari; che si assicuri Rigore nella misurazione dei risultati di salute nell’ambito delle prestazioni erogate.
La sanità in Italia è organizzata a livello regionale. In Italia ci sono modelli di sanità territoriale da prendere ad esempio? Quali e perché?
In Italia, proprio a causa di un sistema tanto disallineato, contempliamo contemporaneamente modelli regionali di gestione affatto dissimili: ospedalieri, territoriali e misti, condizione raggiunta soltanto in corso d’opera per recuperare sul terreno dell’emergenza. Le Regioni che hanno da subito mostrato la corda sono proprio quelle che applicavano il primo, troppo deficitario proprio nell’impalcatura. Io non sono convinto, tuttavia, che ci siano state governance per così dire federali del tutto virtuose, forse fatta eccezione per il Veneto che ha retto meglio di altri territori all’impatto della pandemia in virtù di un modello territoriale collaudato. Continuo a pensare che l’optimum sia ancora di là dall’essere raggiunto e che per guadagnarlo occorra ragionare su scala unitaria. In questo senso ho salutato con favore l’istituzione della «Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana», recentemente istituita dal Ministro della Salute Roberto Speranza e affidata alla presidenza di Monsignor Vincenzo Paglia. Perché, forse per la prima volta da anni, offre il segnale inequivocabile di una volontà politica centrale di sbrogliare la grande matassa della cronicità.
Quali sono le peculiarità dei sistemi mutualistici in sanità e quali risposte innovative stanno mettendo in campo nei territori?
In questo periodo il Terzo Settore ha offerto, come molte altre volte nel corso della sua vicenda nazionale, una miriade di esempi virtuosi, confermando la volontà dei padri costituenti che vollero sancire il ruolo della cooperazione nell’articolo 45 della Carta. Ogni episodio o esperienza raccolti dalle cronache o magari anche ignorati raccontano di un formidabile carico valoriale e di un altrettanto forte spirito di servizio alla comunità italiana, sempre in posizione sussidiaria. Penso alla prima fase dell’esperienza dei Covid Hotel, sorta proprio nell’alveo della cooperazione, penso alla somministrazione dei tamponi a domicilio nelle zone rosse del Lazio, penso anche al nostro piccolo grande esercito di soci lavoratori che non si sono risparmiati per consegnare nelle abitazioni di anziani soli o debilitati derrate alimentari e farmaci. Non coltivo il mito dell’eroismo, ma questa ordinaria straordinarietà mi riconcilia con la brutta epoca che stiamo scontando.
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