«Abbiamo perso un ragazzo. La vicenda di Amadou è diventata un ombra sulle nostre teste. Amadou ha 20 anni, ormai non sappiamo più nulla di lui da un mese». Queste sono le parole di Ettore, un volontario di una casa di accoglienza in provincia di Torino. La scorsa estate Amadou è arrivato in un ospedale della città. È arrivato denutrito e disidratato, al limite della sopravvivenza. La polizia l’aveva trovato in strada in stato confusionale e l’aveva portato in pronto soccorso. Amadou è in Italia dal 2016, è arrivato su un barcone, da solo e minorenne. I primi anni sono difficili da ricostruire, passa di centro in centro e poi arriva a Milano. In mezzo c’è un anno di detenzione e il ricovero in un reparto di psichiatria. «Quando è arrivato da noi», continua Ettore, «aveva pochi spiccioli in tasca, una maglietta e delle ciabatte nello zainetto. Scopriamo qualcosa in più quando riusciamo ad accompagnarlo in Questura: ha il riconoscimento della protezione internazionale, solo che non gli è mai stato comunicato formalmente, e quindi è senza documenti. Il foglio di espulsione ricevuto a Milano ha una data successiva al riconoscimento dell’asilo». La mattinata in Questura lascerà segni su Amadou: i suoi comportamenti peggioreranno, si sommeranno stranezze, si isolerà sempre di più. Amadou non esce più dalla stanza, passa le giornate con una maglietta avvolta sulla testa, non parla più con nessuno, non si lava. L’unica soluzione è portarlo in ospedale, perché possa essere ricoverato e da lì segnalato per la presa in carico territoriale. Passano settimane, Amadou non si muove dal suo letto. I volontari della casa di accoglienza si rivolgono al Centro di Salute Mentale che, data l’urgenza, consiglia l’intervento del 118 per un ricovero. Amadou entra nella struttura un lunedì di marzo, il giorno successivo i Carabinieri gli notificano il decreto di espulsione ancora pendente. La struttura sanitaria lo dimette con poche righe. I carabinieri lo prelevano, lo portano alla Questura Centrale di Torino. Di Amadou non ci sono più tracce. «Abbiamo denunciato la sua scomparsa», dice Ettore. Ma quanti ragazzi come Amadou? Cosa fare per chi si trova nelle sue stesse condizioni? «In un caso simile sarebbe necessario l’intervento etno-clinico», sostiene Pietro Barbetta, direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia e professore di Teorie psicodinamiche all’Università di Bergamo. «L’intervento etno-clinico integra i saperi terapeutici con i sapei antropologici e sociali che hanno a che fare con le migrazioni e le sofferenza di chi migra».
Quanto sappiamo dei disturbi psicologici e della sofferenza di chi migra?
Da sempre, ogni migrante in quanto tale, è ufficialmente fuori dalla legge, il nomadismo è una esperienza umana intollerabile per la modernità, dove il concetto dispotico di “nazione” è stato interiorizzato e inculcato in maniera inconscia dentro le comunità stanziali. Chi migra in qualche modo accetta l’idea di uscire dal territorio, e quindi di de-territorializzarsi. Chi migra va incontro a questo doppio legame: l’essere umano, antropo, è animale nomade, anima migrante, da un lato, l’uomo,nella sua struttura maschile, ho creato barriere legali che riducono la vita ad “anagrafe”. Per questo motivo il nomadismo è considerato, dalle “nazioni” un disordine sociale. In generale, anche in relazione ad altre forme del disagio psico-sociale, sostituirei la parola “disturbo”, di matrice medico/ospedaliera con “disordine”. Il migrante cambia mondo e situazioni, ma, nel migrare, si porta dietro la storia della vita precedente alla migrazione. Quando ci troviamo davanti a queste situazioni le prime domande da porsi sono: “da dove viene questa persona?”, “che lingua parla?”, “com’è stata la sua vita fino a ora?”. Ogni migrazione – non parlo dei trasferimenti dei ricchi – parte da una premessa: nella propria terra d’origine si sta male, fame, guerra, dittature, violenza, corruzione. C’è una storia che muove la migrazione. Questi disordini aumentano quando viene negato il diritto d’asilo. Quando i colonizzatori, che hanno creato queste condizioni,
respingono i migranti: chiamo questo fenomeno “l’ipocrisia europea”. Le pratiche sociali europee non sono accoglienti. Dovremmo invece ricordarci sempre che la migrazione comporta un tasso di sofferenza umanitaria ed esistenziale molto elevata. Ma, se questo viene riconosciuto da ogni politico europeo, le pratiche sociali sono l’opposto.
Cosa si può fare?
Il fenomeno della migrazione è cresciuto negli ultimi 50 anni e continuerà a farlo. Io credo che l’approccio antropo-sociale e quello clinico si debbano integrare. Dobbiamo partire dai sistemi di significato che sono differenti da contesto a contesto. Gli europei tendono a dare per scontato che il nostro modo di vivere è la normalità; questo è un grave errore. In base alla nostra idea astratta e perbenista di normalità, trattiamo l’altro come avesse una malattia mentale, dietro ciò c’è il razzismo, da Gobineau alla psichiatria coloniale. Al contrario le differenze sono condizioni ontologiche dell’esistenza. Il problema parte dai nostri servizi sanitari de-socializzati, che sono incapaci di capire e rapportarsi con la dimensione antropologica.
In che senso?
Quello che fa il nostro sistema di “accoglienza”/respingimento si riduce a pratiche mediche che non rispondono quasi mai alle evidenze scientifiche in medicina. I dolori fisici non hanno riscontri “oggettivi” le condotte deliranti non vengono “curate” attraverso i farmaci. I sintomi vengono spesso generati dal sistema stesso. È il sistema di respingimento giuridico, l’incompetenza psichiatrica e quella psicologica nell’accogliere queste situazioni che poi le fa degenerare. Le persone arrivano nei centri di accoglienza, quando presentano sofferenze psicologiche, vengono spostate nei reparti di psichiatria, gli psichiatri, che non hanno formazione antropologica, prescrivono farmaci che non hanno nessuno effetto e a volte peggiorano la situazione. Dovremmo investire di più in un lavoro etno-clinico; un lavoro terapeutico dove si prendono in considerazione anche gli aspetti etnografici, i particolari esistenziali e i sistemi di credenze. Bisognerebbe lavorare in équipe: psicologo, psichiatra e antropologo, per esempio, o anche con guaritori tradizionali, o figure religiose; con interpreti linguistici sensibili e radicati nelle popolazioni autoctone, con le comunità di appartenenza sul territorio dove si opera. Questo non è affatto impossibile e spesso facilita la comprensione linguistica e la comunicazione del dolore. Le persone necessitano di interventi che non sono necessariamente “occidentali”. Spesso c’è un bisogno di conoscenza della storia delle origini, a volte nella lingua di origine, di un ascolto originario. Poi bisogna sapere lavorare con le ombre, con ciò che non si conosce, piegarsi, con umiltà, ai saperi altri, senza cadere in un facile misticismo riduzionista. Non è un lavoro facile, richiede studio e formazione. Da una parte bisogna tener conto dei diritti umani delle persone, dall’altra dobbiamo ricordare che queste hanno credenze e modi di pensare e di vivere diversi dai nostri e bisogna rispettare entrambi questi aspetti. La scienza contemporanea – nel migliore dei casi – ci mette un “po’ di pillole” e pensa che dopo vada tutto a posto, nel peggiore dei casi insiste con ostinazione in pratiche oppressive e discriminatorie. Per rendere l’altro “consapevole” – questo il pregiudizio occidentale: la salute mentale è consapevolezza – si perde la consapevolezza del danno perpetrato sul “paziente”. Ci vuole tenerezza nell’affrontare queste questioni, ma la tenerezza si impara, spesso richiede un lungo training, non è spontaneità astratta. Quando la psicoterapia è una scienza antropo-filosofica, che lavora attraverso partiche anti- oppressive, lo scambio affettivo è alla base del percorso. Ferenczi diceva che in ogni persona che si rivolge alla psicoterapia, bisogna guardare alla bambina ferita che c’è dentro.
Credit Foto: Sintesi/Danilo Balducci
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