Negli anni Novanta, il sociologo Richard Sennett pubblicò un lavoro titolandolo The corrosion of character. Attorno alla nozione di "character", Sennett dipanava un ragionamento: se, un tempo, si parlava di carriera (career), oggi si preferisce parlare di lavoro (job). Due spie sociali, non solo semantiche. In origine, career significava la strada, tragitto, percorso e persino vocazione.
Ma negli anni Novanta è emersa un'altra nozione mutuata dal «significato arcaico della parola job», quasi a negare questa possibilità di un percorso, di una via, di un accrescimento professionale, in quanto – scrive Sennett – «durante la propria vita le persone sono chiamate a svolgere “blocchi” o “pezzi” di lavoro (o di mansioni)». Tutto questo comporterebbe un’inevitabile ripercussione sul carattere (character) dei singoli e, inevitabilmente, sulle forme della vita comune che ne derivano. Esistono infatti competenze che non coinvolgono solo la sfera del cognitivo come ricordare, parlare, comprendere, fare nessi, dedurre, valutare, ma inplicano qualità trasversali, disposizioni della personalità dette «character skills», quali l’apertura mentale, la capacità di collaborare, la sicurezza.
Il tema di queste competenze non cognitive, in ambito scolastico e lavorativo, è al centro del ricco volume curato da e Giorgio Vittadini, Giorgio Chiosso e Anna Maria Poggi, pubblicato da Il Mulino: Viaggio nelle character skills (pagine 316, euro 23). Proprio a Vittadini, professore ordinario nel Dipartimento di Statistica e metodi quantitativi dell’Università di Milano-Bicocca e presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, che ha fondato nel 2002 come strumento di sviluppo culturale, chiediamo di "guidarci" nel mondo delle character skills.
Professor Vittadini, forse l’analisi di Sennett è viziata da alcuni preconcetti, ma potremmo usarla come leva per riflettere sul… ritorno del character, e degli elementi qualitativi del formarsi, proprio in un tempo di profondi cambiamenti.
Penso che bisogna tornare a riflettere sul tema del lavoro non solo come necessità per la sopravvivenza, ma anche come strumento di costruzione dell’identità personale e sociale. Rimettere la persona al centro dell’economia è la grande sfida di questa epoca. In questo senso il lavoro è un “percorso”.
Che i tratti della personalità siano componenti fondamentali del processo di apprendimento è evidente empiricamente. Da tempo però è anche il risultato di studi scientifici. Ancora di più oggi, in un mondo in rapida trasformazione in cui è decisivo “imparare a imparare”.
Il volume che ha curato con Anna Maria Poggi e Giorgio Chiosso ha un sottotitolo importante: persone, relazioni, valori. Sono tre chiavi di volta per capire il nuovo processo di apprendimento, non solo scolastico, ma anche lavorativo che coinvolge capacità non solo cognitive. Cosa intende per character skills.
Le character skills sono caratteristiche della personalità che riguardano la sfera emotiva e psico-sociale. Sono tratti che influenzano la capacità di orientarsi verso gli obiettivi scelti, la qualità delle relazioni e la capacità di prendere decisioni e far fronte alla realtà. Sono quindi parte integrante di un processo di apprendimento.
L’Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, nel suo vasto progetto di ricerca, le chiama “socio-emotional skill”. Sono spesso definite: competenze non cognitive. Il premio Nobel James Heckman utilizza la tassonomia dei “Big Five”: apertura all’esperienza, coscienziosità, estroversione, amicalità e stabilità emotiva. Ma ce ne sono altre e potrei quasi dire che ogni buon insegnante ha stilato una propria lista.
Le character skills sono caratteristiche della personalità che riguardano la sfera emotiva e psico-sociale. Sono tratti che influenzano la capacità di orientarsi verso gli obiettivi scelti, la qualità delle relazioni e la capacità di prendere decisioni e far fronte alla realtà. Sono quindi parte integrante di un processo di apprendimento
Giorgio Vittadini
Come si lega questa nozione a quelladi capitale umano?
In realtà preferisco parlare di “persona” più che di capitale umano. Le dimensioni della conoscenza non sono riducibili alla sola dimensione cognitiva. Questo vale anche per il “capitale umano”, cioè per quell’insieme di abilità e capacità, innate o acquisite, che l’uomo utilizza nel lavoro e che costituiscono un patrimonio per la vita personale, ma anche per le imprese e per la società. La scuola e il lavoro dovrebbero permettere di imparare e di crescere, cioè sviluppare la personalità, le doti, le qualità individuali.
John Dewey – semplifico – impostava la propria visione pedagogica a un modello ancora taylorista-fordista, dove gli studenti (nella fabbrica: i lavoratori) dovevano “armarsi” di più conoscenze e competenze possibile. Oggi questo modello è in crisi, ma ne vediamo un altro all’orizzonte? Da tempo si sono riaperte domande sullo scopo della scuola e sulle metodologie che deve adottare. Non va solo garantito il diritto all’accesso all’istruzione per tutti, come sancisce la Costituzione italiana, ma anche il diritto a una scuola di qualità, adeguata ai bisogni di formazione e di conoscenza, capace di coinvolgere, che non annoi. Il modello “taylorista-fordista” incentrato sull’accumulo di conoscenze divise in discipline ha da tempo mostrato i suoi limiti. Si è cercato di modificarlo con l’introduzione delle competenze, di cui quelle non cognitive sono parte.
Ma il lavoro è ancora in corso. Le ricerche internazionali osservano che la qualità dell’apprendimento dipende in modo preponderante degli insegnanti. Perciò la loro preparazione, il loro continuo aggiornamento, la passione per la materia e per il lavoro che svolgono sono elementi decisivi. Sono convinto che una buona riforma può essere fatta solo da coloro che la scuola la conoscono, la vivono e che dedicano le proprie capacità ed energie a migliorarla, per la formazione e la crescita degli studenti.
Possiamo misurare l’impatto delle character skills sull’insieme della nostra società? Non si tratta forse di elementi qualitativi non quantificabili?
Le character skills vengono studiate attraverso test di autovalutazione e osservazionali usati normalmente in psicologia. L’obiettivo è di imparare a tenerne conto, non certo proporre un “voto al carattere” nelle scuole. Il presupposto di questi studi è che gli aspetti cognitivi e non cognitivi non sono scollegati, ma costituiscono insieme il profilo indivisibile e unico di ogni singola persona umana. Non so quale senso possa avere misurare l’impatto delle character skills sull’insieme di una società. I tratti di personalità sono considerati molto diversamente in società che hanno culture diverse. L’estroversione, per esempio, in alcune società è considerata un pregio, in altre ritenuta un difetto.
Che i tratti della personalità siano componenti fondamentali del processo di apprendimento è evidente empiricamente. Da tempo però è anche il risultato di studi scientifici. Ancora di più oggi, in un mondo in rapida trasformazione in cui è decisivo “imparare a imparare”
Giorgio Vittadini
Quali sono le character skills del futuro, sia in ambito scolastico, che in quello lavorativo?
Anche qui, dipende dalle opinioni personali. In una sperimentazione che stiamo conducendo nelle scuole con i ragazzi di 15 anni, abbiamo scelto di puntare su coscienziosità (task performance), stabilità emotiva, messa in crisi dal prolungato lockdown, e autoefficacia/autostima. Le consideriamo utili per la scuola, ma penso che si possa estendere all’ambito lavorativo.
Pensa si possa andare “oltre il curriculum vitae”? Come inserire, valorizzare, non voglio dire “istituzionalizzare” ma almeno mettere a sistema le character skills?
Gli insegnanti tengono già conto di fatto delle character skill degli allievi. Ritengo quindi che sarebbe utile inserirle in modo esplicito nei piani didattici delle scuole. Su come farlo lascio la parola a chi si occupa di pedagogia. Credo che la scuola abbia il compito di rimuovere gli ostacoli non solo alla conoscenza dei contenuti, ma anche allo sviluppo di quelle competenze trasversali che influenzano in modo così netto l’acquisizione di conoscenze e competenze.
Le “nozioni” classiche perderanno valore?
Le conoscenze sono la base delle competenze, e non ha senso pensarle in opposizione. Credo però che le cosiddette competenze chiave, che sono disciplinari, siano e restino irrinunciabili: leggere, scrivere e far di conto, più le competenze digitali di base e oggi l’inglese.
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