Possiamo solo immaginare cosa accadrebbe se provassimo a considerarci tutti fratelli. La questione risposta non è scontata, soprattutto dopo la pandemia Ne parliamo con Andrea Grillo, che insegna dal 1994 Teologia dei sacramenti e Filosofia della Religione a Roma, presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo e Liturgia a Padova, presso l’Abbazia di Santa Giustina. Il suo ultimo libro è Uomini… fratelli tutti? L'abbozzo di un sogno (Cittadella Editrice, Assisi 2021)
Caro Andrea, avevamo dato avvio al nostro dialogare durante la fase più difficile della pandemia e oggi ci ritroviamo in un tempo meno cupo, in una primavera di speranza, con uno sguardo che, forse, può osare di guardare più lontano. Hai da poco pubblicato un libro Uomini… fratelli tutti? , che prova a collocare il tema della fraternità in una cornice sociale, religiosa e politica. Un testo, il tuo, molto denso che provoca il ragionamento e vuole, innanzitutto, invitarci a ragionare in termini di complessità. Vorrei dare avvio al nostro dialogo a partire da un passaggio che mi ha molto colpito. Tu scrivi: “La fraternità sconta e presuppone due condizioni che la “legano” ad una relazione esterna (padre/madre) ed interna (altri figli). Nessuno può dirsi “fratello”, se non accetta di confrontarsi sia con un padre e una madre prima di sé, sia con il “figlio” che può e deve trovare e riconoscere in se stesso e che scopre, contemporaneamente, in un altro accanto a sé. La speranza di essere “immediatamente fratelli/sorelle”, senza genealogia e senza un inizio di sé sottratto a se stessi di fronte ad un altro, questo è uno dei punti problematici e fecondi della grande utopia moderna”. Perché per te è così importante questo passaggio?
Perché mi pare che tenti di elaborare una "coscienza fraterna" nell'ambito di un mondo nuovo, che da circa 200 anni si interpreta con i criteri di "libertà" e di "eguaglianza" che, indirettamente, si mostrano come "ostacoli" alla fraternità. Essere fratelli non è questione di "sentimenti da provare", ma di "fatti da riconoscere". Questo ci è molto difficile. E lo è proprio a causa del fatto che sospettiamo di ogni comunità, che limita libertà e eguaglianza. Le differenze, che ogni concretezza vitale propone, non si superano solo con libertà e eguaglianza, ma sempre anche con un difficile ma preziosissimo riconoscimento di "infondatezza" filiale e fraterna.
Non è possibile accostarsi al tema della fraternità senza tenere in stretta considerazione anche la libertà e l’uguaglianza. Perché?Indirettamente ho già risposto. Ma posso precisare meglio. La progettazione di una società di liberi e uguali – la cui libertà e la cui uguaglianza non ha bisogno di fondamento se non nella assoluta differenza della libertà e nella assoluta identità della eguaglianza – fatica a concepire la fraternità come rilevante. Ma questo dipende proprio dalla qualità "relativa" della fratellanza, che mette insieme "una certa differenza" con "una certa identità".
Mi pare fondamentale nel tuo testo questo passaggio: “È ovvio che pensare la fraternità in una società premoderna era per certi versi molto più semplice. La “impoliticità” della categoria era in quel caso quasi scontata e poteva godere anche di una struttura sociale in cui non si dava né libertà immediata, né eguaglianza di principio: anzi, proprio una società autoritaria e diseguale favorisce le forme di fratellanza/fraternità come recupero di dignità. Ma da quando la fraternità è assurta a categoria politica, in un contesto di libertà e uguaglianza immediata, la riflessione filosofica e teologica è stata messa a dura prova, nell’intento di elaborare un sapere – ed una esperienza – della fraternità/sororità che fosse allo stesso tempo “dono di grazia”, “compito morale” e “diritto politico”. A che punto siamo in questa “prova”?
La prova è dura, perché accade in un paradigma a cui non siamo abituati. In un certo senso la società liberale, in forme sempre fragili e ferite, ha saputo generare forme di "fraternità senza legame". Curioso paradosso. E curiosa pretesa. Essere trattati da fratelli, e trattare gli altri come fratelli, in un mondo in cui tutti sono liberti e uguali non è affatto semplice. Ma accadono miracoli in cui i livelli di esperienza del reale – come diritto, come dovere e come dono – si e ci trovano in asse e permettono di essere ancora fratelli, nonostante la nostra libertà e nonostante la nostra eguaglianza.
Nel tuo testo citi Edgard Morin. Rivolgo a te la domanda – abissale direi – che il grande pensatore rivolge a tutti noi: “La fraternità ci pone un problema: non può essere imposta dall’alto o dall’esterno; non può venire che dalle persone. La sua fonte è dunque in noi. Dove?”.
Questa domanda ci pone di fronte al passaggio di paradigma che ha inaugurato la tarda-modernità. La fraternità è "imposta dall'alto" in tutte le comunità che non sono fondate né sul principio di libertà, né sul principio di eguaglianza. Al contrario, quando le comunità sono fondate su libertà e eguaglianza, possono perdere ogni fraternità. E allora? Credo che la soluzione possa essere solo all'interno della libertà, in una profonda radice relazionale, in cui la alterità libera (o autorità) è condizione di libertà.
La fraternità ci pone un problema: non può essere imposta dall’alto o dall’esterno; non può venire che dalle persone. La sua fonte è dunque in noi. Dove?
Edgar Morin
Se gli uomini e le donne fosse liberi "di per sé", la eguaglianza sarebbe garantita almeno all'inizio e la fratellanza sarebbe mera eventualità contingente. Ma siccome la libertà e la eguaglianza sono benedette contingenze, la fratellanza è l'unico motore vero della libertà e della uguaglianza.
Concludi il tuo volume dicendo che la Fraternità è diventato “un esplicito tema magisteriale” ma come fare a non farlo diventare l’ennesima “guerra dialettica imponendo dottrine”?
Un "tema magisteriale" può essere, certo, un numero del catechismo, un'altra dottrina da "tenere per vera" e magari per "definitiva" pur essendo stata formulata solo giovedì scorso. Ma quando diciamo "tema magisteriale" possiamo anche intendere un modo singolarmente efficace di ascoltare i "segni dei tempi" e di disporsi a costruire una attestazione del vangelo che faccia della fraternità vissuta e annunciata il vero contenuto da custodire. C
he fraternità significhi, ad es., smetterla di scrivere stupidaggini sulle donne o sulle unioni omoaffettive, senza perciò dover penalizzare uomini e unioni eteroaffettive. Fraternità è accettazione riconciliata della diversità non come sconfitta della identità.
Non posso concludere il nostro dialogare senza far riferimento alle parole del cardinale Reinhard Marx: “Mi pare – e questa è la mia impressione – di essere giunti ad un “punto morto” che, però, potrebbe diventare anche un punto di svolta secondo la mia speranza pasquale”. La Chiesa è giunta ad “un punto morto”, oppure, la fraternità può essere il segno di una “speranza pasquale” in grado di rinnovare le coscienze?
Un "punto morto" è una condizione non eccezionale nella vita delle persone e delle istituzioni. Si vivono "punti morti" quando senza immaginazione, inquietudine e incompletezza, si pretende di non potersi permettere altro da ciò che già c'è. La Chiesa avrebbe, perciò, il migliore dei codici possibili, la migliore disciplina del ministero, la più fedele formula dei riti, la più efficace macchina di formazione…e se qualcuno dice che non è così, allora si parla di "scisma". Ogni immaginazione, ogni inquietudine, ogni incompletezza è ridotta a scisma quando siamo al punto morto. Ma proprio in questi casi, si riparte. Si salta di grado e si inizia a pensare a nuove leggi migliori, a nuovi ministeri più rispettosi, a nuove forme rituali più ricche e a percorsi pedagogici più veri. Così immagino il sentimento del Card. Marx e la sua "protesta" contro tutti coloro che pensano che la prudenza si identifichi solo con il principio "quieta non movere".
*Pietro Piro (Termini Imerese 1978) Responsabile ricerca e sviluppo area sociale e formativa dell’Opera Don Calabria di Verona.
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