Gabriella Nobile

Come una mosca in una tazza di latte

di Sara De Carli

«Voi non potete sapere cosa passa per la mente di un nero che esce di casa la mattina: il pericolo è sempre dietro l'angolo»: così racconta una ragazza che vive in Italia. Gabriella Nobile mette in fila le storie di adolescenti e giovani neri, alle prese con i pregiudizi di chi indossa una divisa. «Servono narrazioni positive: ne hanno bisogno le forze dell’ordine e i nostri figli»

Lo scatto è bellissimo, ma trovare due ragazzi disposti a farsi fotografare in quel modo è stata un’impresa. Un ragazzo nero e uno bianco con la divisa da Carabiniere, nuca contro nuca. Stessa frase, da entrambi i lati. «Di fianco a uno sbirro? Mai», hanno detto in tanti. «Con la divisa? Mai», hanno replicato altrettanti. L’aneddoto su quanto sia stato difficile realizzare lo scatto di copertina sta a pagina 108-109 di “Coprimi le spalle”, il nuovo libro di Gabriella Nobile. Esattamente a metà libro, come se ne fosse in qualche modo il cuore. E il cuore del messaggio è lo sbatterci in faccia le dimensioni enormi della nostra non conoscenza. Che ci porta a sorprenderci e trovare inaudito del fatto che un ragazzo nero possa essere fermato 22 volte in un mese in una qualsiasi tranquilla nostra città, mentre aspetta l’autobus per andare al cinema o mentre cammina lungo un viale con la musica nelle orecchie per andare a scuola. Senza un perché che non sia il colore della sua pelle. Ma anche a commuoverci per la storia di Amin, un Carabinere di guardia quella notte in cui da un auto di servizio scese – in arresto – un uomo che sembrava posseduto dal diavolo: Amin capiva la lingua che quell’uomo parlava, perché era la sua. Grazie a lui capirono che l’uomo aveva nascosto la droga nel pannolino di suo figlio e lo aveva spostato in balcone, non immaginando che sarebbe stato arrestato. Il bambino si è salvato grazie a Amin, che ora ha trovato il suo posto nell’arma. «Si sta parlando molto di questo libro, ma tanti mi dicono “interessante, però non se ne può parlare in tv, come fai a dare contro la Polizia?”. Non hanno capito. Io non “dò contro” alla Polizia ma alla società. È la società che è così. E la Polizia e la società esprimono anche ciò che i media hanno raccontato loro. Quindi è da qui che occorre ripartire, da una diversa narrazione».

Gabriella, per lo scatto di copertina alla fine ha dovuto convincere suo figlio e un modello. Cosa ci dice questo episodio?
Intanto ci fa capire quanto i giovani siano lontani anni luce e spesso nemici delle forze dell’ordine, anche senza averci avuto mai a che fare. Quando ero piccola mi faceva sentire bene parlare con qualcuno in divisa, mi trasmetteva un senso di sicurezza e di protezione: mia figlia invece, che ha 10 anni, quando incontra un poliziotto abbassa la testa e si ritrae. La divisa non è più vista come una cosa figa, aspirazionale. C’è un pezzo di società che ha introiettato l’equazione «divisa=pericolo per i neri» in maniera del tutto simile a quella in cui milioni di italiani – tra cui giocoforza anche appartenenti alle forze dell’ordine – hanno introiettato l’equazione inversa «nero=nemico per gli italiani». È un aneddoto che ci dice che non c’è conoscenza tra le due parti e non essendoci conoscenza non c’è nemmeno empatia e quindi non c’è rispetto. Perché il rispetto viene dalla conoscenza, dal sapere la verità. I nostri figli neri non si sentono rispettati dalle forze dell’ordine: c’è una diffidenza, un non sentirsi protetti che poi scatena anche reazioni avverse, spesso anche un po’ polemiche o sopra le righe, che li fanno passare dalla parte del torto. Quando fermi un ragazzo nero 22 volte in un mese… la 23esima lui risponderà male. Va cambiata la narrazione su entrambe le parti: i nostri figli con la pelle scura vanno raccontai in un modo diverso dal cliché per cui se hai la pelle scura sei il nemico e dall’altra parte va fatto capire che il poliziotto è lì per aiutarmi. Narrazioni positive: ne hanno bisogno le forze dell’ordine e i nostri figli. Che poi questa è la realtà vera, che ovviamente è fatta molto più di situazioni positive che negative.

Qual è il posto di questa narrazione diversa?
La vita di tutti i giorni, innanzitutto. Ma anche i media ci devono aiutare, non raccontando solo del nero che ci invade, che ruba e uccide. E poi ci devono aiutare le istituzioni, nel senso che quando accade una brutta storia per mano delle forze dell’ordine non deve essere messa sotto il tappeto, come se non ci appartenesse o ripetendo solo che si tratta di “mele marce”. Vanno aperti dibattiti, come fanno negli Usa, in Francia e in Inghilterra: bisogna discutere sul perché è successo e su come trovare la soluzione.

Come hai trovato le storie che racconti nel libro?
Sono arrivate. Ne ho centinaia. E non c’è bisogno di arrivare all’episodio violento: basta che ti fermino continuamente per un controllo; che al posto di dire “favorisca i documenti” ti chiedano il permesso di soggiorno; che usino un linguaggio umiliante, con modi provocatori. Anche queste sono micro-aggressioni.

Nel libro parli del “razzismo inconsapevole” con cui i ragazzi neri che vivono in Italia devono comunque fare i conti. Si chiama white privilege. Cose cioè che chi è bianco dà per scontate, ma che non lo sono per chi ha la pelle scura. Chi è bianco, per esempio, per risultare sospetto alle forze dell’ordine deve aver fatto qualcosa di sospetto: a un nero quando sale sull’autobus capita sempre minvece di vedere almeno una signora che si stringe la borsetta al petto. In questo elenco metti una frase che mi ha molto colpito: a un ragazzo nero, i genitori insegnano come difendersi dai razzisti e come comportarsi quando viene fermato/a dalle forze dell’ordine. L’hai fatto anche tu?
Certo. Noi genitori di figli neri dobbiamo avere questa skill in più: insegnargli a portarsi sempre i documenti, a non fare movimenti improvvisi e a tenere le mani in vista se un poliziotto ti ferma. È strano, a me i miei genitori hanno insegnato che quando quando mi sentivo in pericolo dovevo chiamare la polizia… io gli devo insegnare a non mettersi in situazioni ambigue quando lo ferma la polizia. È questo il “privilegio bianco” che noi abbiamo: siamo possessori di un privilegio senza aver fatto niente. Mio figlio ha 15 anni, un giorno mi ha detto: «Ma tu lo sai cosa provo quando sono sempre l’unica persona nera in una stanza? Mi sento come una mosca in una tazza di latte». La loro diversità viene sottolineata di continuo e ribadita ogni giorno. Loro sanno che devono indossare una maschera: persino un medico – lo abbiamo visto più di una volta – non sa con certezza come verrà trattato da un suo paziente.

Che reazioni stai raccogliendo a pochi giorni dall’uscita del libro?
Reazioni discordanti: se ne sta parlando molto ma d’altra parte ci sono anche tanti media che non vogliono toccare l’argomento. «È interessante, però non se ne può parlare in tv, come fai a dare contro la Polizia?», mi dicono. Non hanno capito. Io non “dò contro” la polizia ma contro la società. È la società che è così, la polizia è espressione della società e se la società è così la responsabilità è anche dei media che parlano sempre ssolo di sbarchi, invasioni, clandestini. Però quando c’è da raccontare una cosa bella non ci sono.

E la Polizia che dice?
Il nostro rapporto è con l’OSCAD – Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori: hanno letto gli articoli che sono usciti, sono contenti… Siamo entrambi convinti che parlando, non gridando si risolvono le cose. Bisogna fermarsi, smettere di gridare e iniziare a parlare.

A novembre con il benestare della ministra Lamorgese partirà questo corso-pilota che coinvolgerà alcuni ragazzi di 18-25 anni, di diverse etnie e appartenenti a forze dell’ordine: si parleranno, si ascolteranno, si interrogheranno sui reciproci pregiudizi, si guaderanno negli occhi. E dopo?
Io spero che sia l’inizio di un percorso. Vogliamo che sia l’inizio di un percorso, il primo di tanti corsi. Ne uscirà un documento condiviso che daremo alle scuole e alle università, proprio perché il problema va preso da ambo le parti: si racconteranno i nostri ragazzi ma si racconteranno anche i poliziotti, ragazzi della stessa età, con le loro paure, che diranno come si vive in strada in zone pericolose. Farà bene ai giovani saperlo, di qualsiasi pelle siano.

Con l’associazione che hai fondato, Mamme per la pelle, e con “I miei figli spiegati a un razzista”, hai sollevato il velo sul razzismo dell’Italia, che per definizione “non è razzista ma”. Quali sono i progetti in corso?
Con Mamme per la pelle abbiamo ideato dei corsi di destrutturazione del razzismo, rivolti a genitori adottivi o coppie miste perché dopo la tragedia di Seid (Seid Visin, di origini etiopi e adottato da una famiglia campana quando aveva sei anni, si è suicidato a giugno 2021 all’età di 20 anni. Nel gennaio 2019 in uno scritto aveva raccontato che «ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone», ndr) abbiamo deciso di fare quello che volevamo fare da tempo, cioè aiutare i genitori adottivi a rapportarsi con i problemi di razzismo che i nostri figli hanno o avranno da grandi, perché l’amore non basta. Facciamo corsi per genitori, docenti, psicologi, ragazzi: ovviamente ogni target ha un corso strutturato in modo specifico ma la base è sempre la destrutturazione del razzismo (info a info@mammeperlapelle.it). Ieri avevamo 30 coppie di genitori online, sono tutti molto preoccupati di questo clima che si sta inasprendo e hanno bisogno di capire come poter aiutare i figli: non c’è errore peggiore di minimizzare, del liquidare gli episodi come sciocchezze o del dire “vedi razzismo ovunque…”.

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