Ida Matrone

Così durante il lockdown è sbocciata la mia amicizia con i detenuti

di Riccardo Bonacina

Volontaria nel carcere di Bollate, Ida Matrone ha raccolto in un bel libro le lettere, le mail e le riflessioni di un anno di lockdown, duro per tutti, ma particolarmente per chi era in carcere. «Quello che è emerso in questo periodo è stato scoprire in maniera ancora più esplicita e vera che la presenza del volontariato in carcere ha un unico obiettivo: compiere un pezzo di strada insieme, condividere i nostri bisogni e le nostre domande, in altre parole rendere vero e operativo il grande valore dell’amicizia. Perché la speranza ha il volto dell’amicizia».

«Non si è volontari in carcere perché si fa opera assistenziale, ma perché si aiuta l’altro a diventare la persona che è, in tutta la sua bellezza”, scrive così don Claudio Burgio, cappellano al Beccaria di Milano, nella prefazione al libro di Ida Matrone, Lettere da un carcere. Racconti e volti di un’amicizia (Edizioni Ares, euro 14). Un sottotitolo che esplicita cosa sia davvero il volontariato, in carcere e ovunque, un seminatore di amicizia, amicizia civile, civica.

Quello di Ida Matrone è un libro di cui consiglio la lettura, personalmente è un libro che mi ha fatto bene, nelle sue pagine la testimonianza plastica e calda di una frase di Fabio Rosini che ho trovato citata: “Qualunque persona venga da noi, deve poter trovare in noi qualcuno che la aiuti a riscoprire la propria bellezza”.

Ho seguito la presentazione del libro nel teatro del carcere di Bollate con detenuti, guardie ed esterni che hanno seguito, insieme, il racconto di Ida che anche durante il lockdown, lunghissimo nelle carceri, ha tenuto il rapporto con i suoi amici “dentro” attraverso mail e lettere di cui alcune riportate nel libro.

«Sono entrata come volontaria dell’Associazione Incontro e Presenza nel carcere di Bollate da 12 anni, ma il mio incontro con la realtà carceraria è avvenuto molto prima. Sono stata allieva alle scuole superiori della fondatrice dell’Associazione, Mirella Bocchini, e sono rimasta anche in seguito, in un costante rapporto d’amicizia con lei: ho assistito quindi alla nascita dell’Associazione, avvenuta 35 anni fa, e grazie ai racconti di Mirella, ero al corrente di quello che succedeva nelle carceri, ma soprattutto degli incontri incredibili che avvenivano in quel luogo, tra volontari e detenuti, che svelavano un’umanità impensabile a noi “fuori”. Il mio rapporto con il carcere è proseguito da insegnante. Ho promosso progetti che facessero incontrare il mondo della scuola con il carcere, nella convinzione dell’importanza che la società modifichi il suo atteggiamento nei confronti dei detenuti. E questo può avvenire solo attraverso un incontro libero da pregiudizi. Infine, per ultimo, decido di entrare in carcere come volontaria, entro per caso e poi sono tornata ogni settimana.

Hai detto nella presentazione a Bollate che il tuo non è un libro “sul” carcere, cioè?

«Non faccio un discorso sul carcere, non si parla del concetto di pena utile, delle misure alternative, del problema del sovraffollamento, e non se ne parla perché queste importanti questioni non rientrano in quello che compete affrontare ai volontari; questo è il tema della politica. Ma c’è un prima alla politica che è l’oggetto del libro. Un prima che l’ex magistrato di sorveglianza, Guido Brambilla ha molto chiaramente espresso: «L’opera di risocializzazione (meglio direi di comprensione di sé e del proprio esistere nel mondo), può ricominciare da un rapporto significativo con un TU. Il rapporto con un tu che guardi al soggetto senza giudicarlo, senza congelarlo nel gesto criminale, nel fatto che ha commesso, ma che, senza giustificare nulla (occorre dire pane al pane e vino al vino), guardi al detenuto come uomo degno di stima e che quindi ha una dignità PRIMA di dimostrarsi di nuovo utile per la società, prima che abbia un lavoro, un’istruzione e sia quindi nei termini politicamente corretti considerato riabilitato”. Nel libro parlo in prima persona, perché racconto la mia esperienza di volontaria, quello che ho visto, chi ho incontrato, che cosa è nato, che cosa questa relazione ha prodotto come consapevolezza della propria persona, della mia persona in prima battuta, e della vita. Quindi è un libro che parla di rapporti, i detenuti in questo libro non sono una categoria, hanno tutti un nome, un volto, una storia».

L’opera di risocializzazione (meglio direi di comprensione di sé e del proprio esistere nel mondo), può ricominciare da un rapporto significativo con un TU. Il rapporto con un tu che guardi al soggetto senza giudicarlo, senza congelarlo nel gesto criminale, nel fatto che ha commesso

Guido Brambilla

Il libro, hai raccontato, è nato durante il lockdown, nelle sue pagine troviamo tanti dialoghi via lettera o mail

Il COVID 19 che è arrivato con una potenza sconosciuta e destabilizzante per tutti, ha colpito ancor di più chi è ristretto in carcere dove la situazione di isolamento e abbandono è esponenziale, e con esse il sentimento di impotenza, di non poter fare nulla per i propri cari. Tuttavia, il rapporto con i detenuti è continuato soprattutto attraverso lo scambio di mail tra noi volontari e loro, e, nonostante la distanza, i rapporti si sono approfonditi, si è anche arrivati ad una intimità tenera e affettuosa davvero inimmaginabile che mi ha riempito di stupore e gratitudine. Due parole in particolare erano presenti nelle lettere, parole che esprimevano, e che esprimono sempre, due posizioni nei confronti della realtà: PAURA e SPERANZA. Come vincere la paura e dove trovare la speranza.

Che risposta è uscita nei vostri dialoghi?

Quello che è emerso in questo periodo è stato in maniera ancora più esplicita e vera quella che è la modalità della nostra presenza in carcere: compiere un pezzo di strada insieme, condividere i nostri bisogni e le nostre domande, in altre parole rendere vero e operativo il grande valore dell’amicizia. Perché la speranza, abbiamo capito, ho capito, ha il volto dell’amicizia. Come ha scritto padre Puglisi: “solo gli amici sperano, solo dove c’è amicizia c’è speranza. Chi è completamente solo è disperato; il futuro è solo timore, quando è vuoto d’amicizia, e il presente, per chi è pieno solo di se stesso non ha prospettive.

L’amicizia non è mai fine a se stessa spalanca al mondo e ci rende protagonisti del cambiamento della società. Marian, una ragazza poco più che ventenne e mia ex alunna, dopo aver letto il libro e mi ha lasciato un commento, questa è la frase conclusiva: “… anche se non li conosco, li ringrazio, li ringrazio perché esistono e spero che con la loro storia, una volta fuori, contribuiscano a rendere più umana la nostra società. Credo infatti che chi ha sbagliato, ha compreso, ha perdonato e si è fatto perdonare abbia qualcosa in più da insegnare, rispetto a chi si crede perfetto e giusto solo perché non ha mai scontato una pena e non ha dovuto avere l’umiltà di dover ricominciare.”

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