Il no alla ‘ndrangheta è perentorio, deciso. L’imprenditore reggino Tiberio Bentivoglio ha detto no e insieme alla sua famiglia continua a dire no al pizzo, no al racket e no alla violenza. Il sì è faticoso, anche sanguinoso, ma ha il sapore della dignità. «La mia storia è reale, vera come i proiettili mafiosi, vera come anche l’inerzia di una parte dello Stato. Non vogliamo più essere vittime di mafia, ma sopravvissuti consapevoli, sopravvissuti allo scempio mafioso e allo scempio dell’isolamento sociale, allo scempio della violenza», spiega Tiberio Bentivoglio, imprenditore riconosciuto testimone di giustizia e vittima di ‘ndrangheta per la sua testimonianza contro il racket subito e poi i danneggiamenti alla sua attività e a più attentati a cui è scampato o sopravvissuto subiti ad opera dei clan della città di Reggio Calabria.
Le regole della ‘ndrangheta e la difficoltà di scardinare
Tiberio Bentivoglio è proprietario e gestore di una sanitaria, la Sanitaria Sant'Elia, a Reggio Calabria. La sua sarebbe potuta essere la storia di tanti imprenditori come lui in Calabria: quella del commerciante che deve pagare il pizzo per stare “sereno”, per non avere problemi. Ma la storia di Tiberio Bentivoglio, è diversa. Perché lui ha detto no. Tiberio Bentivoglio ha detto no alla mafia, ha detto no al pagamento del pizzo. Questa è la sua storia, la storia di chi, come lui, ha scelto di ribellarsi e di non piegare la testa. «Da quando in un piccolo garage con i risparmi di una vita mia moglie Vincenza Enza Falsone ed io abbiamo deciso di iniziare un’attività commerciale, abbiamo subito diversi ricatti, estorsioni e pure attentati. Ma è nel 1998 che c’è il salto di qualità, giusto per chiarire che si tratta di pizzo: viene dato alle fiamme il furgone della sanitaria», racconta. Ma nessuno indaga, nessuno lo interroga. In compenso si fanno vive la banche. Non è finita: Tiberio e la moglie Enza si rialzano e continuano a non pagare gli uomini della ‘ndrangheta. Così nel 2003 gli mettono “per fargliela pagare e farlo chiudere” una bomba che devasta l’emporio. E poi un altro incendio doloso arriva nel 2005. «Le vicissitudini giudiziarie e amministrative sono troppo intricate per raccontarle tutte nei particolari», chiosa amaro Bentivoglio.
I proiettili alle spalle della mafia e lo stigma che colpisce anche chi è vittima
C’è un giorno che però cambia per sempre la vita di Tiberio Bentivoglio e della sua famiglia: il 9 febbraio del 2011, esattamente un anno dopo la condanna dei mafiosi che più volte hanno devastato il suo negozio, additati da Tiberio stesso in tribunale durante il processo, come la
peste la ‘ndrangheta torna a colpire con una nuova ondata: questa volta il bersaglio è sulla sua schiena: «Questo giorno ho subito un attentato, rimasto quasi sconosciuto alle cronache nazionali. Mi hanno sparato dopo che sono sceso dal furgone, mentre stavo andando a lavorare nel mio frutteto. Sei colpi. Alle spalle, non sono “uomini d’onore” come si raccontano, sono infami e codardi». Il verbale dice: “È stato attinto da un proiettile ad una gamba, mentre l’altro proiettile ha trovato ostacolo nel borsello che il Bentivoglio portava al collo”. L’attività commerciale, in concomitanza con l’inizio dei procedimenti giudiziari, risente dello stigma di chi viene “contagiato” dalla criminalità organizzata: «Che tu sia colluso o che tu ti opponga, se hai a che fare con la ‘ndrangheta ti sei crea “terra bruciata” intorno, anche se sei tra i pochissimi imprenditori che denunciano il pizzo», ammette amareggiato.
E lo Stato?
«Le leggi in favore di chi denuncia esistono, ma sono obsolete – continua Tiberio Bentivoglio -, e non tengono quasi mai conto del fatto che un imprenditore vuole tersimoniar contro la ‘ndrangheta per tornare a fare il suo lavoro, non per essere un eroe. Voglio poter continuare a dire: non pagate il pizzo, perché desidero dire al mio amico commerciante, al mio vicino di locale, “smettila di pagare perché io ho vinto”. Ma se prima non vinco non lo posso fare. In queste condizioni non posso andare a dire non pagate il pizzo. E se chiuderò, chiuderò per mancanza di Stato, ma non per la ‘ndrangheta», analizza lucido Tiberio Bentivoglio. Dopo il tentato omicidio del 2011, l’imprenditore reggino ha fatto richiesta al Viminale appellandosi alla legge per chiunque subisca un’invalidità permanente per lesioni riportate in conseguenza di atti di territorio, senza ricevere risposta. Inoltre delle somme che spettavano per i danni nel corso degli anni tra incendi e la bomba esplosa il 28 febbraio 2016 nel negozio, «abbiamo ricevuto solo una cifra pari al 15-20% nel 2019, quale parziale ristoro dei danni subiti nel 2016».
I beni confiscati alla mafia, il punto da cui partire
Non è finita qui, perché la cifra riconosciuta a Enza e Tiberio Cifra in buona parte pignorata dall’Agenzia delle Entrate «perché sono in arretrato coi contributi», cosa che ha comportato il mancato rilascio del “documento unico di regolarità contributiva”. «Lo Stato mi ha ipotecato anche la casa – ammette sconsolato Bentivoglio – perché sono moroso rispetto a quei tributi che prima degli attentati pagavo minuziosamente». Ci sono però ulteriori aspetti controversi. Da un lato «le elargizioni non erano pignorabili», motivo che ha portato ad avviare una controversia tributaria – temporaneamente arenatasi causa Covid – per vederne il recupero. Dall’altro, la mancata applicazione della delibera 17 del 2012 del Comune di Reggio Calabria. Il provvedimento riconoscerebbe «in favore delle imprese che hanno sporto denuncia contro il racket, le esenzioni per i tributi locali maturati dal 2012 in poi ed il diritto delle stesse a rateizzare le annualità di imposte e tasse locali. Questa delibera esiste, è reale, ma mai applicata». Sentito in Commissione parlamentare antimafia, Bentivoglio si è fatto portavoce della richiesta di estendere i soggetti che per la legge 109 del 1996 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati, possono chiederne l’assegnazione. La legge di iniziativa popolare proposta dall’associazione Libera non prevede infatti che i beni possano essere affidati “a fini sociali” anche a vittime di mafia o imprenditori che denunciano. «Ho chiesto di rivederla, anche prima che ricevessi un bene confiscato. Ho chiesto che venisse aggiunto chi ha denunciato e non ha più un’attività. Basta un comma, ma i legislatori devono sedersi a ragionare. Solo a Reggio abbiamo centinaia beni confiscati inutilizzati, lì a prendere la polvere [secondo il report Fattiperbene di Libera del marzo 2021, in Calabria i beni confiscati sono 4.786 di cui il 40% è senza destinazione. I beni non destinati, solo nella provincia di Reggio, sono 1.120, ndr]. Diamoli agli imprenditori che hanno denunciato, diamoli a chi denuncia l’usura. Che schiaffo sarebbe entrare nella casa dei mafiosi e fare imprenditoria?».
I semi di coscienza civica piantati a Reggio Calabria con “Reggio Libera Reggio”
«Bisogna rimanere in Calabria. Ma abbiamo bisogno di uno Stato forte, non piccolo. Non di pratiche ferme sulle scrivanie delle prefetture, ma di risposte pronte», ammette lapidario Tiberio Bentivoglio che nella sua Reggio c’è rimasto a vivere e lavorare guidando che la società civile
grazie alla creazione di “Reggio Libera Reggio”: «Insieme al coordinamento di Libera Reggio Calabria abbiamo dato vita a un cartello di imprese, singoli professionisti, associazioni, cooperative e consumatori che svolgono la loro attività a Reggio e provincia con l’obiettivo di definire una strategia che possa comprendere concrete iniziative di contrasto alle attività della ‘ndrangheta ed in modo particolare alla piaga del racket». Il percorso è partito dall’ascolto delle testimonianze, come quella di Tiberio Bentivoglio, delle difficoltà e delle necessità delle vittime del racket che esercitano le loro attività nel comune di Reggio Calabria. A partire dai primi mesi del 2010, un ampio numero di realtà sociali del territorio, ha condiviso il percorso già intrapreso da Libera su altri territori, attraverso la “Campagna di denunce, sostegno e proposte”: «Si tratta di un regolamento semplice e un osservatorio formato da membri interni, si propongono di rendere concretamente operativa l’interazione tra le realtà aderenti al progetto, per allargare il più possibile il numero delle imprese desiderose di ottenere il logo “Reggio Libera Reggio” e quello dei consumatori critici che si impegnano a sostenerle sottoscrivendo il “Manifesto del cittadino consumatore per la libertà e la giustizia”», conclude Bentivoglio che in parallelo al contrasto alle mafie sta piantando semi di legalità e coscienza critica nella sua terra.
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