Marco Balzano (Milano, 1978) è autore di diversi romanzi dalla forte connotazione sociale, tra cui Quando tornerò (Einaudi), che esplora la storia di una madre che lascia i suoi figli in Romania per venire in Italia, a prendersi cura delle famiglie degli altri, a far la badante ossia il lavoro di molte donne ucraine in Italia.
Ci sono delle analogie tra le storie che ha raccontato nei suoi romanzi e quello che sta accadendo ora?
Mi è capitato spesso, ultimamente, di ricevere domande di questo tipo e di avvertire la necessità, da parte del mondo dell’informazione, di istituire analogie e confronti: questo significa che c’è molta voglia di capire le cause profonde che hanno portato a questa situazione, che resta insoddisfatta. Certo, mi pare evidente che ci sia un paese aggressore che compie un sopruso tragico e violento e un altro che subisce questo sopruso; l’uomo, però, ha sempre bisogno di aggrapparsi a qualche elemento di razionalità, di comprendere. Dunque, si, pensandoci, di analogie con la situazione attuale nel mio libro ce ne sono.
Ossia?
Quello che ho voluto scrivere era un racconto internazionale, per non dire planetario. Possiamo toglierlo dall’Est Europa e metterlo nelle Filippine, in Sud America, dal Nord Africa povero al Medio Oriente e più ricco, dal Sud Est Asiatico fino al Giappone o all’Australia: da trent’anni a questa parte i movimenti delle donne sono più che mai capillari e incalzanti in tutto il pianeta. Quello che mi colpisce è come la mancanza di senso e la violenza della guerra non possano far altro che approfondire un solco di lontananza già di per sé profondo. Le donne che svolgono un lavoro di cura in molti casi sono madri che vivono il dramma di lasciare i figli a casa; con la guerra, al senso di colpa si aggiungono anche quelli di angoscia e di pericolo.
Molte famiglie che hanno una badante si chiedono se incoraggiare il ricongiungimento. Lei cosa farebbe?
Valuterei il singolo caso. Dobbiamo metterci in testa che stiamo parlando di vite umane, non di protocolli da seguire o di macchine da aggiustare: non ci sono modi e ricette preconfezionate. Dunque ascolterei la storia della persona che è all’interno della mia famiglia e che in qualche misura ne fa parte, perché è a conoscenza delle relazioni più intime e cura i miei più cari affetti, i miei bambini, i miei genitori o la mia casa. Dire cosa fare in termini generali mi sembra addirittura fuorviante perché noi, per giunta, di questa guerra sappiamo molto poco e abbiamo delle grandi incognite sul suo immediato futuro; non sappiamo se i tavoli per le trattative funzioneranno e se a questi tavoli continueranno a seguire le bombe. Non conosciamo nemmeno come si delineerà il ruolo della Nato e dell’Europa unita.
Si interroga anche lei, come molti.
Mi interrogo se abbia senso portare armi agli ucraini, se non sia il caso di pianificare a tavolino un’accoglienza dei profughi, in modo da non prestare il fianco al populismo di alcuni partiti. È un’occasione in cui questa parte del mondo, che definirei privilegiata, potrebbe far vedere di essere unita ideologicamente sia sulla questione della guerra in sé sia sulla gestione dei civili, fondamentale per non causare altro dolore. Non possiamo separare e traumatizzare ulteriormente le famiglie, mandando, magari, una madre in Polonia e suo figlio in Italia.
Sull’idea appunto di armare la resistenza ucraina, percorsa dal nostro Governo, che risposte si è dato?
Non ho risposte. La mia posizione ideologica è quella della Costituzione: le controversie internazionali non si risolvono con la guerra. Poi, ovviamente, vedere arrivare delle truppe di una potenza, di una capacità di combattere, nettamente superiore alla propria pone dei grossi problemi. Si può fare i duri e i puri sul pacifismo oltranzista a parole, ma, anche se ci credo, so che la situazione è molto complessa. Avere risposte non fa parte del mio ruolo: uno scrittore deve cercare di conoscere i fatti e le dinamiche. Credo che l’informazione ci stia dando ancora una volta una visione tremendamente parziale di quello che sta succedendo in Ucraina.
Spieghiamolo.
Quello che arriva alla persona media è che il mondo è diviso in buoni e cattivi, aggressori e aggrediti: sembra che siamo in balia della follia. Non possiamo però esaurire così l’analisi di un fenomeno complesso come questo, altrimenti non ce ne facciamo carico fino in fondo. Io ho un vero bisogno di capire, abitando in un’altra parte del mondo, cosa succede nelle menti, nei palazzi del potere, nella testa dei soldati e nel cuore dei civili. Sento più il bisogno di analisi che narrazione, cosa che lascerei più alle persone che verranno accolte. Sono loro che avranno bisogno di raccontarci le loro storie per permetterci di aiutarle. Dare loro la parola sarà molto importante, perché altrimenti saremo noi a decidere come andranno risolti i loro traumi e questo è rischioso, com’è stato tremendamente rischioso esportare la democrazia in vitro negli ultimi anni.
Ho un vero bisogno di capire, abitando in un’altra parte del mondo, cosa succede nelle menti, nei palazzi del potere, nella testa dei soldati e nel cuore dei civili. Sento più il bisogno di analisi che narrazione, cosa che lascerei più alle persone che verranno accolte.
Marco Balzano
Una delle vittime collaterali di questa guerra sembra essere la cultura, come è accaduto, per esempio, nell’Università di Milano Bicocca, dove Dostoevskji ha rischiato di essere censurato. Che effetto le fa questo fenomeno?
Come si può essere d’accordo a sanzionare Dostoevskij, a trattarlo come se fosse filoputiniano o espungere i suoi capolavori dalle accademie? Sarebbe come cancellare un corso su Dante o Balzac, se la stesse azioni fossero compiute da Italia o Francia. Dostoevskji è russo ma è un patrimonio dell’umanità: i classici vivono più dei ministri, dei capi di governo e degli zar. La questione in sé, quindi, è risolvibile in un attimo. Voglio pensare che queste siano reazioni isteriche di paura, di sconforto e di mancanza di elementi per capire la situazione. Un comportamento del genere è un granchio terribile, che un’università non dovrebbe permettersi di prendere, ma si tratta di un segno che denota lo spavento e il bisogno di conoscere che tutti abbiamo.
Sembra di essere di fronte a dei moti di solidarietà ondivaga: ci sono persone che aprono la propria casa ai profughi e altre che sventolano le bollette per lamentarsi dei rincari.
Non mi sento di assumere un punto di vista giudicante: anche chi sventola la bolletta, perché non ce la fa più a pagarla, è una persona che sta soffrendo e che la politica dovrebbe ascoltare. Chi sta aprendo casa propria ai profughi, invece, è una persona che andrebbe messa nelle condizioni di rendere visibile il suo esempio. C’è un grande bisogno di una regia e, ancora una volta, l’informazione e la politica compiono degli errori, che si basano su dinamiche ormai strutturali, che sono pericolose: oggi a fatica riusciamo a capire quanti ammalati di Covid ci sono e quanto sono occupate le terapie intensive perché c’è una guerra che occupa tutta l’informazione. Ma non si può procedere per sostituzione, le macro-questioni, andrebbero affrontate non solo sotto il peso della contingenza e dell’allarme. Non si deve perdere di vista la complessità delle dinamiche del reale.
Invece?
Invece la cronaca e la politica – per non parlare dei social – inseguono spesso un solo aspetto, magari determinante e sensazionalistico, ma riduttivo. Le persone che vivono un’altra angolazione del problema, le bollette o l’accoglienza, vengono lasciate un po’ a se stesse. Un paese non può funzionare sulla politica del singolo: c’è bisogno di una programmazione da parte di chi ci governa.
I suoi romanzi hanno sempre una forte connotazione sociale. Pensa che scriverà un libro sugli avvenimenti che stiamo accadendo ora?
Credo che lo scrittore sia un uomo dal passo più lento degli altri e che abbia bisogno di guardare i fatti da un punto panoramico più ampio, di vedere il mondo da un’altezza maggiore. Quello che sta succedendo è ancora troppo parte del trambusto del presente e della cronaca perché possa sedimentarsi e prendere la forma più fluida e sfaccettata di una storia. Io, quasi, non ne avverto nemmeno la necessità narrativa, perché sono completamente assorbito dal bisogno di capire e conoscere: non si può scrivere senza aver compreso.
ha collaborato Veronica Rossi
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