«Per fare quello che avete fatto bisogna essere un po’ speciali. Oggi avete reso magica una squadra e orgogliosa una nazione». Il boato arriva dalla sala occupata dalla delegazione italiana e dalla voce di Ferdinando Fefé De Giorgi, prima ancora dei festeggiamenti. Con i suoi ragazzi ha vinto un mondiale strappa applausi. E in questo capolavoro c’è molto di se stesso, ovvero di Fefé De Giorgi, oggi sessantunenne di Squinzano in Salento, legatissimo alla sua terra. Un uomo che conosce profondamente l’arte della vittoria, avendo conquistato da giocatore quei tre titoli mondiali antecedenti al successo di Katowice, dove l’Italvolley ha battuto i padroni di casa e campioni del mondo della Polonia. Un successo che arriva 12 mesi dopo quello europeo, il primo arrivato da un coach esponente di rilievo di quella generazione di campioni che fece innamorare l’Italia della pallavolo negli anni ’90, quando però la maggior parte dei giocatori che hanno alzato la coppa non era ancora nata.
De Giorgi, quanto vale questa vittoria nel percorso di crescita dei suoi ragazzi e del suo lavoro di coach e mentore?
È un successo che vale tanto, una tappa importante di un cammino iniziato lo scorso anno all’insegna del cambio generazionale e di due parole che spesso è difficile far coesistere: crescere e vincere. E poi allenare l’Italia è qualcosa di enorme. Non può che rendermi orgoglioso.
Lei è diventato allenatore della nazionale lo scorso anno, con un progetto che puntava a Parigi 2024, come ha pensato di costruire questo gruppo e c’è un’elemento nella ricetta di questi due successi che spicca sugli altri?
Direi di si: puntare sui giovani in Italia lo si fa in casi di emergenza, o a parole. Per me invece far crescere i giovani è un valore aggiunto. L’anno scorso, anche se con poco tempo per allenarci insieme, agli europei ci siamo presentati con 8 esordienti nella competizione e un’età media di 24 anni. Un percorso che nonostante il successo è continuato con questo mondiale dove erano addirittura 12 gli esordenti su 14. Anche questo un risultato storico. L’idea è quella di costruire un gruppo di ragazzi che sentono la fiducia l’uno dell’altro.
Al centro quindi lei mette il gruppo?
Esatto è un successo arrivato per le qualità umane ed etiche di questi ragazzi. Grazie a quelle si lavora molto più facilmente insieme su quelle tecniche. E loro questa fiducia la sentono anche se hanno poca esperienza e giocano spensierati, emozionandosi per ogni punto e per ogni vittoria. Il gruppo è composto dai giocatori, ma anche dallo staff che ha scoperto e per questo lo abbiamo convocato, ragazzi come Yuri Romanò che ha 24 anni e arriva dalla A2 e ha più partite in nazionale che in Superlega, ma aveva il supporto di tutto il gruppo che è come una famiglia, e questo l’ha portato ad esprimersi al meglio in Polonia.
Parlava di famiglia, com’è stata l’accoglienza della sua Puglia, a cui lei so che è molto legato?
Sono arrivato in aereo a Bari e c’era tanta gente ad aspettarmi, non me lo aspettavo. A Squinzano invece sono stato poco, praticamente il tempo di dormire e ripartire. Ho trovato una grande bandiera vicino casa ed è stato emozionante. Mi hanno sempre fatto molto piacere le testimonianze d’affetto dei miei conterranei.
Quanta Puglia c’è nei suoi trionfi, da giocatore e da allenatore?
In Puglia c’è tutto quello che mi ha formato: la mia nascita, la famiglia, i luoghi in cui sono vissuto. In Puglia c’è tutto il mio percorso valoriale. Pensi che non ho mai cambiato residenza, nemmeno quando sono stato all’estero o quando ho dovuto girare tantissimi posti. La mia città è sempre stata Squinzano, ora è Trepuzzi perché mi sono leggermente spostato. In assoluto tutte le cose che contano, le fondamenta, provengono dalla mia terra: il senso di responsabilità, il credere nella squadra, tutto parte dai primi anni di Squinzano, Ugento. E poi abbiamo sole e mare splendidi. Ti danno un’idea diversa della vita.
Lei da giocatore ha iniziato proprio in Salento…
Ho iniziato a giocare in Salento prima con la Vis Squinzano e poi con la Falchi Ugento, qui ho imparato l’etica del lavoro, della fatica e del rispetto degli avversari. Penso che a tutti i livelli lo sport, tramite il gioco, porti sul campo tutti i valori che servono anche alla crescita umana dei ragazzi: in campo devi socializzare, comunicare, ha delle regole da rispettare e tutto questo emoziona, sia che vinci, sia che perdi. Perché il gioco ti insegna anche a perdere. Per questo credo che lo sport debba essere usato maggiormente come strumento educativo, perché porta emozioni e tutti questi messaggi educativi insieme.
Questi valori aiutano anche a risolvere le situazioni più ingarbugliate durante le partite?
Certo. Ci sono momenti molto difficili da gestire, e devi essere equilibrato. Sono cose che ovviamente affini con gli anni, ma se sei già predisposto, è più facile.
Quando giocava pensava già di poter essere un grande allenatore e quanto il fatto che abbia vissuto il campo prima della panchina, la rende un riferimento anche emotivo per i suoi giovani ragazzi?
Ho smesso tardi di giocare, avevo 42 anni, e certamente a quei tempi pensavo che sarei stato allenatore. Il desiderio massimo era ovviamente la nazionale, ma in quei momenti non puoi pensare realmente di arrivarci. Per due anni sono stato allenatore e giocatore contemporaneamente. È stato un passaggio graduale che sicuramente mi ha aiutato. E provo a leggere le emozioni nei volti dei miei ragazzi perché so come si sentono in campo. Cerco sempre di essere un supporto non solo tecnico per loro.
Quanto ha contato nel suo bagaglio il suo aver vinto così tanto con la maglia azzurra addosso da giocatore?
Sono stati anni decisivi, devo ringraziare molti allenatori, Velasco, ma non solo. Chi fa questo mestiere, infatti, deve assimilare il più possibile e poi adattare il tutto. Quel periodo mi ha dato una formazione fondamentale, inculcandomi la cultura del lavoro, la consapevolezza che il talento conta ma contano molto anche altri valori. Quelli non hanno età, vanno oltre le generazioni.
Invece quanto c’è esclusivamente di Fefè De Giorgi nel successo mondiale?
Questo deve dirmelo lei [ride]. Io porto la mia idea di volley. Certo, la scelta di puntare così nettamente sul ricambio generazionale è stata forte, non era scontato che lo facessi e che portasse risultati. E credo molto nei valori, nell’atteggiamento.
Ciò che più mi piace è il messaggio che sta passando riguardo questi giovani: sono facce belle, pulite, hanno uno spiccato attaccamento alla maglia, che risalta sempre quando il gioco si fa duro. Giocano e si divertono, esprimono gioia anche nei momenti di difficoltà.
Pensa possa esserci qualche giovane in procinto di entrare nella Nazionale?
Da qui a Parigi, mi auguro di poter inserire altri giovani, e magari tra questi anche pugliesi. Ovviamente non faccio nomi, ma in assoluto sono aperto alle novità. Chi merita, può avere la nazionale. E lo stesso concetto vale anche per gli atleti esperti, non solo i giovani. Un allenatore punta sui progetti, sui percorsi, non mi affido mai nulla al caso.
L’obiettivo ora è Parigi 2024…
Le squadre forti devono imparare a vincere, ma anche a perdere. Manterremo una mentalità serena, consapevoli delle nostre qualità e continuando a divertici giocando, fidandoci gli uni degli altri.
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