Welfare

Afghanistan: strage nel “campo-mattatoio”

Ogni giorno vicino ad Herat muoiono un centinaio di disperati, in un campo profughi. E il network degli aiuti umanitari sta crollando sotto l'afflusso dei nuovi arrivi

di Paolo Manzo

Il campo di Maslakh, che in inglese vuol dire mattatoio, è sul bordo di un disastro umanitario, “Ethiopian style”. L’allarme lo lanciano gli operatori umanitari. Situato 30 miglia ad ovest della città di Herat, il campo è la casa di oltre 350mila profughi afgani, cento dei quali muoiono ogni giorno per assideramento e per fame. Con più di 15 anni d’esperienza alle spalle di duro lavoro a stretto contatto con i disastri umanitari, Ian Lethbridge, direttore esecutivo della charity Feed the Children (www.feedthechildren.org) con sede a Berkshire, assicura che Maslakh è fra i campi peggiori che abbia mai visto. “Giudico sempre tutto confrontandolo con ciò che ho visto in Africa”, dice a The Guardian di oggi, “e questo è ai livelli dell’Africa. Sono stato davvero sconvolto dalle condizioni di vita delle persone che sono arrivate ultimamente”. Izzah Burza, 38 anni, con la sua famiglia è stata al campo per un mese, provenendo da un altro campo-macello. In fuga dalla guerra e dalla siccità, era stata attirata dalle voci sulla presenza di cibo al campo. Ma finora non ne ha ricevuto. “Con la mia famiglia mi sono fatta a piedi oltre duecento chilometri per arrivare a questo campo”, spiega. “Quando arrivai avevo quattro bambini, ora me ne sono rimasti solo due. Non ci hanno dato niente mangiare per una settimana…” La sua è una storia comune. Anche se Maslakh è stato messo su quattro anni fa per occuparsi della siccità, il conflitto recente ha fatto esplodere il campo. Gli ultimi arrivi si trovano in una situazione senza alcuna via d’uscita. Non possono ottenere nessun aiuto fino a quando non vengono registrati come rifugiati dal personale del Programma d’alimentazione mondiale (Pam). Ma non possono farsi registrare senza aiuto. Al momento il Pam ha soltanto un personale ridotto a Maslakh, nemmeno sufficiente per occuparsi delle migliaia di profughi già là, figurarsi per registrare i nuovi che arrivano ogni giorno. Forzati ad arrangiarsi fuori del campo, i nuovi arrivati mettono su qualsiasi tipo di riparo sulla pianura sterile circostante, ricoperta da immondizie e rifiuti. Le famiglie senza alcun riparo sono costrette a scavare buche nella terra gelata per ripararsi dal vento pungente. I fortunati usano alcune coperte stracciate o fogli di plastica lerci e strapparti, per ripararsi. A breve distanza (neanche 25 metri) dai rifugi-buche c’è uno dei molti cimiteri, proprio ai bordi del campo. Il formato minuscolo delle tombe è la prova evidente che la maggior parte dei sepolti è composta da bambini. Con l’arrivo della neve invernale, il numero delle tombe è destinato a crescere. Mentre camminavo fra una moltitudine di esseri umani venivo continuamente scambiato per un operatore umanitario. Gli uomini mi sbattevano i fogli di carta in faccia, chiedendomi di registrarli per poter ricevere aiuto, mentre le donne m’indicavano le loro bocche, mimando una fame atavica. Bambini, troppo denutriti per muoversi, stavano accovacciati tremanti e indifferenti, con vuoti fori neri al posto degli occhi. Molti indossavano soltanto stracci al posto dei vestiti, alcuni erano avvolti in pezzi di plastica, nel vano tentativo di creare un po’ di calore. La maggior parte erano scalzi. Anche se quasi nessun sussidio sta arrivando al campo, la scorsa settimana Feed the Children è riuscita a far arrivare 40 tonnellate di alimenti e ad ospitare nell’aeroporto di Herat un aereo da carico Ilyushin, vecchio di 30 anni. “Ci sono soltanto quattro forni che tentano di far mangiare oltre 100mila esseri umani”, spiega il signor Lethbridge. “Il numero massimo di pagnotte che possono sfornare è di 8mila al giorno. Abbiamo in programma di ottenere 60 forni nelle prossime settimane, aiutando la gente a sfamarsi ma per ora…” Mentre l’Occidente stava colpendo i Talebani, molti a Maslakh hanno mantenuto l’orecchio attaccato alla radio, per ascoltante gli aggiornamenti. Con pochi combattimenti nella provincia di Herat, si attendevano una risposta rapida da parte dei governi occidentali. Pensavano che gli aiuti fossero in arrivo. Ma non giungendo quasi nulla, si sentono amareggiati ed abbandonati. “Voi siete qui solo per scattare foto”, mi ha detto una donna del campo. “Non siete qui per aiutare. Non possiamo mangiare le vostre immagini. Stiamo morendo. Abbiamo bisogno di cibo e medicine…”


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