Economia

Le nuove frontiere dell’impact investing nel settore dell’agribusinnes

Impiegare strumenti finanziari tradizionali secondo un nuovo approccio, attirando capitali privati in settori un tempo serviti prevalentemente dal pubblico, come l’educazione, la sanità, l’assistenza agli anziani, e stimolando l’innovazione in settori strategici per il nostro Paese, come il turismo, la cultura, l’agribusiness.

di Monica Straniero

In cima alla classifica delle “buzzword” degli ultimi anni, spesso abusato e con interpretazioni controverse, si può̀ affermare che con il termine impact investing si intende un'attività di investimento che mira a generare non solo un ritorno finanziario per gli investitori, ma anche (intenzionalmente e in modo addizionale rispetto un investimento alternativo) un impatto di carattere sociale ed ambientale. Non si tratta di una nuova asset class, come alcuni sostengono, ma di impiegare strumenti finanziari tradizionali secondo un nuovo approccio, attirando capitali privati in settori un tempo serviti prevalentemente dal pubblico, come l’educazione, la sanità, l’integrazione famiglia – lavoro, l’assistenza agli anziani, e stimolando l’innovazione in settori strategici per il nostro Paese, come il turismo, la cultura, l’agribusiness. Oggi il mercato è molto piccolo e, secondo le stime del GIIN il Global Impact Investing Network, vale circa 12,2 miliardi di Dollari a livello globale. Tuttavia, non manca l’interesse da parte di istituzioni internazionali come il G8 e il World Economic Forum, così come del Fondo Europeo per gli Investimenti, che ha creato un fondo da oltre 240 milioni di Euro per supportare la nascita di altri fondi di impact investing, e degli investitori privati, come segnalano i grandi gestori di patrimoni. A livello internazionale la ricchezza degli High Net Worth Individuals, i “paperon de’ paperoni”, ha raggiunto il picco storico di 56,4 triliardi di Dollari nel 2015 e se l’impact investing fosse in grado di attirarne anche solo l’1% nei prossimi anni potrebbe costituirsi un mercato da oltre 500 miliardi di Dollari.

In Italia, dall’altro lato, i numeri dell’impact investing sono ancora troppo limitati, sono pochi gli attori specializzati in questo ambito e le risorse mobilitate non superano complessivamente poche decine di milioni di Euro. Per attirare anche solo quella percentuale minima del 1% dei capitali disponibili c’è bisogno di un ecosistema favorevole che stimoli la creazione di un deal flow di progetti. Vita.it ha intervistato Veronica Vecchi, responsabile scientifico Impact Investing Lab all’Università Bocconi, che ha partecipato al Convegno “Per l’economia della Terra. La nostra casa comune”, organizzato la settimana scorsa dall’Associazione Italiana per l’Agricoltura Biodinamica, APAB.

Quali sono le opportunità dell’impact Investing nel settore dell’agribusiness?
Impact Investing significa attrarre capitali e nuova imprenditoria per stimolare la nascita di nuove attività di impresa che rispondano alle sfide della società contemporanea. Le opportunità nel settore dell’agribusiness sono di impiegare non solo tecniche agricole più sostenibili dal punto di vista ambientale, ma anche introdurre innovazioni di filiera che consentano un contatto diretto e più attento verso il consumatore e una maggiore redistribuzione di redditività per il produttore. Fare impact investing in questo settore significa rilanciare un settore strategico per il nostro Paese, tutelare la salvaguardia del territorio e creare occupazione giovanile. L’impact investing consentirebbe quindi di ridurre le spese pubbliche per la salvaguardia del territorio, e in questo caso l’impatto è immediatamente misurabile.

Ma in linea generale non è sempre agevole valutare il cambiamento che l’investimento ha effettivamente prodotto nella vita concreta delle persone e delle comunità.
La questione della valutazione dell’impatto è un tema molto dibattuto a livello internazionale. In mancanza di misure standardizzate, la questione è di aumentare la conoscenza e la fiducia in uno strumento il cui obiettivo è quello di superare gli strumenti tradizionali di investimento sostenibile (ad esempio,ESG, selezione negativa), percepiti come poco efficaci e meri strumenti di compliance, per generare un’ impatto sociale su una scala più ampia. Ci tengo comunque a precisare che nell’impact investing la misurazione dell’impatto, seppur importante per dimostrare l’addizionalità dell’impatto sociale rispetto a un investimento tradizionale alternativo, non è fondamentale tanto quanto lo è per le imprese non profit, per le quali rappresenta invece il principale indicatore di performance, che sta assumendo maggiore rilevanza per vincere la partita sempre più competitiva dell’attrazione dei capitali filantropici. Nell’impact investing, invece, essendo l’impatto sociale strettamente collegato al ritorno economico-finanziario, se l’impresa, o il progetto, è in grado raggiungere una certa domanda, allora sarà profittevole e avrà soddisfatto anche un determinato target di impatto sociale. In questo senso, la misurazione del valore economico finanziario può rappresentare indirettamente anche una misura del raggiungimento di un determinato impatto sociale. Una recente survey condotta da Barclays riporta che il 48% degli investitori intervistati non escluderebbe un investimento impact solo per l’assenza di metriche di misurazione dell’impatto sociale.

È possibile superare il trade off tra impatto sociale e ritorno economico finanziario?
Il trade-off che sostiene che l’impatto sociale è sempre perseguito a discapito del ritorno finanziario rappresenta una visione piuttosto tradizionale dell’impatto, che confina i bisogni sociali alle sole fasce più povere della popolazione. In un’economia matura come la nostra, i bisogni ai quali l’impact investing può dare una risposta non sono necessariamente quelli della cosiddetta “bottom of the pyramid”, alla quale le politiche pubbliche e il terzo settore devono ancora provvedere, ma sono sparsi tra i “nuovi” poveri, come ad esempio le giovani famiglie con lavori a tempo determinato, gli anziani con la pensione minima, i giovani adulti disoccupati ancora mantenuti dalle loro famiglie, i lavoratori di mezza età che hanno perso il lavoro, le persone disabili.

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