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Silvestri (Avsi): «Servono risorse, ma anche la capacità di valutare l’impatto»

Intervista al direttore generale di Avsi dopo l'intervento su Vita della neo direttrice dell'Agenzia Laura Frigenti: «Uno dei nodi della cooperazione non è tanto la quantità di risorse, che certo resta tema centrale, ma soprattutto di come si utilizzano. Ormai il pubblico non ce la fa più a rispondere a tutte le domande»

di Riccardo Bonacina

Nell'intervista rilasciata a Vita, la Direttrice dell'Agenzia per lo Sviluppo Laura Frigenti sostiene che non si può ridurre gli APS a una sola questione di risorse, ma piuttosto occorre focalizzarsi su come esse riescano a operare in modo catalitico per far convergere flussi finanziari privati a favore dello sviluppo. Giampaolo Silvestri direttore generale di Fondazione Avsi e memro del Consiglio nazionale della cooperazione, condivide il giudizio?

Sì, condivido la posizione della direttrice, che sta mostrando insieme a grande competenza, anche realismo e visione di ampio respiro. Uno dei nodi della cooperazione non è tanto la quantità di risorse, che certo resta tema centrale, ma soprattutto di come si utilizzano. Ormai il pubblico non ce la fa più a rispondere a tutte le domande, quindi bisogna aprire nuovi fronti, far lavorare soggetti diversi. Che poi, a ben vedere, è “core business” della cooperazione che ha l’ambizione di favorire lo sviluppo a partire da sinergie tra realtà diverse attorno alla valorizzazione del bene della persona, mai disgiunto dal bene comune.

Con la nuova legge da poco entrata in vigore, il settore privato dovrebbe svolgere un ruolo importante nella nuova cooperazione internazionale targata Italia. Che cosa può insegnare l'esperienza di AVSI nelle relazioni tra ONG e imprese?
Sono molto orgoglioso di alcune esperienze che AVSI ha maturato sul campo che indicano vie da percorrere e moltiplicare anche per il futuro, ne cito solo due. A Bugala, Uganda, dal 2014 è attivo un progetto innovativo che, grazie a un finanziamento iniziale di Fondazione Cariplo, ha permesso l’avvio di alcune imprese sociali agricole che producono lavoro e reddito per la popolazione locale e a ruota promuovono azionariato diffuso locale e attraggono investitori internazionali di impatto sociale, a beneficio della realtà locale ma anche del business internazionale. Un secondo esempio a Maputo, Mozambico: qui un’impresa italiana ha investito in un progetto di distribuzione di piani cottura a basso consumo energetico e meno inquinanti a circa 7500 famiglie: un intervento che conviene all’impresa, ma anche alle società locali.

Quali le imprese più adatte alla cooperazione internazionale? Le grandi oppure le piccole e medie imprese?
Oggi sono coinvolte di più le grandi imprese, perché hanno mercati internazionali e obblighi in quanto sono quotate. Ma in realtà un contributo molto significativo – soprattutto per l’Italia – potrebbe venire dalle piccole e medie imprese che sanno integrare nel loro modo di lavorare il patrimonio di tradizioni e cultura locale.

Esistono secondo lei rischi che si finisca per favorire l'internazionalizzazione delle imprese italiane anziché investimenti a favore dello sviluppo per ridurre la povertà e le diseguaglianze sociali?
Il rischio c’è. Importante è che l’internazionalizzazione abbia risorse e strumenti definiti e distinti. Se c’è una distinzione oggettiva di canali, risorse e soggetti attuatori, questo rischio si può attenuare. In Italia la legge riconosce l’importanza di questo. Ne deriva che se un imprenditore costruisce una fabbrica a partire da una certa visione aperta anche alla questione impatto sociale, questo crea sviluppo. Lancerei uno slogan: far bene con l’impresa, fa bene all’impresa.

Molte ONG sono preoccupate dall'assenza di parametri e precondizioni da imporre al settore privato per essere coinvolto nella cooperazione internazionale e accedere a finanziamenti che facciano da leva agli investimenti. Un timore condivisibile?
Sì. Però a livello internazionale ci sono già criteri, codici e regole che selezionano sia le tipologie di progetti, sia le imprese che possono accedere a questi fondi. Si tratta solo di rifarsi a questa letteratura internazionale.

Dalla Commissione europea alle principali istituzioni internazionali, è diffusa la convinzione che nuovi strumenti come il blending favoriscano un effetto leva tra capitali privati e pubblici, ma l'ultimo rapporto della Corte dei conti UE smentisce i benefici tratti dal blending. Lei che idea si è fatto a proposito?
Mi sembra che si parli molto di questa tecnica di “mescolare” risorse da parte di soggetti diversi per amplificarne la raccolta, ma che ancora non si vedano esempi significativi. Appare come una best practice ancora molto teorica. Aggiungerei poi un accenno sul fatto che un cane di tanti padroni, non ha nessun padrone alle fine: il blending sconta una potenziale difficoltà di governance.

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