Non profit

I bravi volontari? è meglio dimenticarli

Volontariato in crisi. Parla padre Giuseppe Bettoni, il fondatore di Arch

di Gabriella Meroni

La stanchezza dei volontari? Certo che esiste, e da tempo. Il volontario tanto enfatizzata dai media sta cedendo. E diventa più difficile per noi, oggi, trovare persone disponibili e motivate all?impegno di lungo periodo. Soprattutto tra i giovani». Chi lavora sul campo lo sa. Non ha bisogno di statistiche e numeri. Perché la crisi dei volontari la vede, la sente, la subisce ogni giorno. Come padre Giuseppe Bettoni, presidente dell?associazione Arché che si occupa di bambini sieropositivi. Un settore, sottolinea padre Bettoni, nel quale si sceglie di impegnarsi gratuitamente non certo a cuor leggero, o perché è di moda. Con il rischio poi di mollare tutto dopo pochi mesi, se non poche settimane. Succede, è già successo. Oggi più di ieri. Vita: Perché? Cosa è venuto a mancare? Bettoni: Molte cose. Innanzitutto per molti ragazzi la sofferenza è ridotta a uno spettacolo, che coinvolge ma non impegna, non porta al cambiamento della vita e delle abitudini. Poi ci sono le insicurezze che i giovani vivono in questo tempo, per cui non accettano di affrontare un percorso di vita che li porta a contatto con il dolore altrui per non mettersi in discussione ulteriormente. D?altra parte, eviterei di bollare questi ragazzi come egoisti. La loro paura è più profonda, più culturale: non riescono a superarla solo con la buona volontà. Vita: Quindi per essere volontari bisogna avere certezze. È inutile andarle a cercare nel volontariato stesso? Bettoni: Serve una certa solidità di sé. Altrimenti si possono fare danni, e in un?associazione come la nostra l?abbiamo visto più volte. Ci sono persone che arrivano con un gran desiderio di aiutare, ma sono fragili interiormente, quindi non reggono situazioni al limite, come lo strazio di una famiglia che ha un figlio con l?Aids. E poi è chiaro, stare accanto a un bambino per due settimane e poi mollarlo provoca traumi peggiori della solitudine. Vita: Arché ha da poco presentato un quaderno sulla sua identità e sui valori propri della sua missione, una sorta di ?carta dei volontari? di Arché. In essa scrivete: «Abbiamo imparato a vincere l?idealismo». Che significa? Bettoni: C?è una contrapposizione diffusa e falsa, che tende a opporre il professionista al volontario. Il primo, che sia medico, psicologo o assistente sociale, è ritenuto colui che agisce ?per mestiere?, quindi in modo freddo e disumano; il volontario, invece, è meritorio di per sé, perché non è pagato. Ma questa è un?ideologizzazione pericolosa. Primo, perché esistono migliaia di medici e assistenti sociali che si comportano in modo generoso e umano, e fanno molto più del loro dovere. E poi perché non è vero che il volontario agisce gratuitamente: cerca il proprio interesse personale, la realizzazione di sé, il consenso. Vita: Niente enfasi su questa figura, quindi. Bettoni: Niente enfasi e niente luoghi comuni. Soprattutto non dobbiamo trasformare il volontario in un eroe, perché altrimenti alla minima difficoltà od obiezione sarà portato a offendersi, quasi che non credesse ai suoi occhi: ma come, perché tutto questo capita a me che sono così bravo? Vita: Archiviato il volontario-eroe, qual è il modello cui ispirarsi? Quale idea si devono fare i giovani del volontario ?vero?? Bettoni: Suggerisco di dimenticare la figura del volontario, e di pensare solo a quella del cittadino solidale, detentore di uno stile di vita che lo porta a impegnarsi ovunque, non solo nelle poche ore di lavoro in associazione. Uno che fa volontariato dovrebbe interessarsi delle politiche sociali nazionali, del degrado dell?ambiente o anche solo dei problemi del quartiere dove vive. Insomma dovrebbe essere una persona responsabile, non scissa. Vita: La solitudine è nemica del volontariato? Bettoni: Non in modo assoluto, ma indubbiamente una persona sola ha più chance di andare in crisi, di vivere in modo schizofrenico. Anche chi si coinvolge troppo corre pericoli, perché rischia di venire manipolato emotivamente dai propri assistiti. Quasi ricattato. Vita: Quale via d?uscita? Bettoni: Una sola: la formazione. Bisogna accettare il lavoro di squadra, il confronto, l?esperienza di chi ha già percorso un cammino di impegno. Chi ritiene di farcela senza formazione mi fa ridere, non riuscirà mai a comprendere la realtà e i problemi che pone. La formazione comporta una messa in discussione di sé e dei propri schemi, il conforto di ragionamenti e non solo di sentimenti. Perché occorre imparare a pensare, non solo a fare.


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