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Di Carlo (Msf): Tornare a Pozzallo? Quando le istituzioni faranno buona accoglienza

Intervista al capomissione in Italia di Medici senza frontiere, all'indomani della dura decisione di lasciare il Centro di primo soccorso e accoglienza siciliano divenuto simbolo in negativo della difficoltà di dare un primo aiuto efficace a chi sopravvive al mare. "Abbiamo provato in tutti i modi a restare, ma mancano le condizioni per un partenariato con le autorità basato su obiettivi chiari e condivisi. A oggi è impossibile individuare i soggetti vulnerabili e quindi garantire loro l'assistenza adeguata"

di Daniele Biella

“Se c’è un luogo simbolo – in negativo – della prima accoglienza italiana ai migranti, è il Cpsa (Centro di primo soccorso e accoglienza) di Pozzallo”. Stefano Di Carlo, capo missione di Msf, Medici senza frontiere in Italia, coordina le attività dell’ong sul territorio nazionale: a fine dicembre 2015, proprio una di queste attività, una delle più delicate e proprio a Pozzallo, ha chiuso i battenti. Gioco-forza: “Dopo aver portato assistenza medica ad almeno 2700 persone sbarcate da febbraio 2015 in poi, riteniamo che il Cpsa non offra le garanzie minime per una collaborazione efficace”. Una decisione dura, quella di abbandonare il Centro e, parallelamente, i progetti di supporto psicologico e assistenza a vittime di eventi traumatici – almeno 800 consultazioni all'attivo nei Cas, Centri di accoglienza straordinaria, della provincia di Ragusa.

Msf ha lasciato il Centro di primo soccorso e accoglienza dall’oggi al domani?
No. Nel novembre 2015 avevamo presentato un rapporto che denunciava le criticità, chiedendo una risposta istituzionale. Che però non è arrivata, e di fronte a una situazione così insostenibile abbiamo dovuto lasciare, nostro malgrado.

Qual è la “situazione insostenibile” in atto al Cpsa di Pozzallo?
Le problematiche sono tante e su più livelli, dal sistematico sovraffollamento – i 220 posti di capienza sono spesso superati, arrivando anche a 400 persone – alla promiscuità derivante dalla presenza di uomini, donne e bambini negli stessi luoghi, con poco spazio e locali in condizioni inadeguate a cominciare dai servizi igienici. Ancora, la situazione di precarietà in cui ci si trova a lavorare, sia per quanto ci riguarda lo screening sanitario sia per il rilevamento delle impronte e ogni passaggio burocratico in tempi molto brevi, con persone comunque ancora scosse da un viaggio complesso e traumatico che spesso non capiscono bene cosa viene detto o fatto firmare loro durante l’identificazione e che quindi sanno poco o nulla di quello che gli spetterà nelle ore successive. Il sistema non è organizzato e questo rende ogni passaggio molto complicato, in cui risulta impossibile individuare i soggetti vulnerabili, ovvero i primi fra tutti che avrebbero bisogno di protezione internazionale.

Persone comunque ancora scosse da un viaggio complesso e traumatico che spesso non capiscono bene cosa viene detto o fatto firmare loro"


Ora Msf non è più nel Cpsa, ma il centro continua a operare e probabilmente a breve diventerà un terzo hotspot – dopo Lampedusa e Trapani – ovvero con la presenza rafforzata di operatori di Frontex, Agenzia europea per il controllo delle frontiere, che stringerà ancora più le maglie su chi potrà entrare nei circuiti dell’accoglienza e chi invece verrà respinto con un foglio di via. In aggiunta, rimane in primo piano la questione dell’uso della forza al momento del fingerprinting, data la resistenza di molti profughi al rilascio delle impronte, dato che per il Regolamento Dublino III tale procedura li obbligherebbe a rimanere in Italia o ricollocati in luoghi indipendenti dalla propria volontà, quando invece vorrebbero andare in luoghi per loro con più garanzie. La vostra scelta è un punto finale?
Assolutamente no. Usciamo dal Cpsa con rammarico e dopo averle tentate tutte per arrivare a un dialogo costruttivo con le autorità. Ma Medici senza frontiere si occupa di servizio umanitario e impegno politico, quindi venendo meno le condizioni di un partenariato di collaborazione con obiettivi chiari e condivisi, non ci è stato possibile rimanere. Questo è il risultato dell’attuale politica sull’accoglienza, ancora troppo centrata sull’emergenza e incapace di staccarsi da essa nonostante si sia da tempo usciti da situazioni emergenziali propriamente dette: stiamo vivendo una crisi stabile e globale che può e deve avere risposte strutturare. Ma queste non vengono messe in atto in ogni singola fase della prima accoglienza. Nel momento in cui le cose dovessero cambiare, noi saremmo più che disposti a tornare ad operare sul territorio ragusano. Attualmente, però, non s’intravede la strada per un tale cambiamento.

Quale nuovo modello dovrebbe farsi spazio?
Un luogo dove la priorità sarebbe proprio riconoscere le situazioni di vulnerabilità e garantire il diritto all’assistenza, parallelamente al disbrigo delle necessarie pratiche di identificazione. Stiamo parlando di persone con un vissuto da conoscere il prima possibile per sapere come relazionarsi con loro. Poco tempo fa è entrata nel Centro una persona con evidente disagio psichico, ma anziché una presa in carico immediata, essa è rimasta ben 40 giorni nella struttura fino a dare in escandescenze ed essere ricoverato d’urgenza con un Tso, Trattamento sanitario obbligatorio. Ecco, questo non deve accadere. Allo stesso modo, è impensabile che dei minori permangano nel Cpsa per settimane, quando per loro è ancora più necessario un immediato trasferimento in strutture più idonee. Queste sono le criticità da affrontare. Ma, ribadisco, manca la volontà politica e questo è un vero peccato, e quasi un controsenso visto l’enorme sforzo umanitario che uomini e donne delle istituzioni mettono in atto per salvare le persone in mare.

Photo credit: Alessandro Penso/Msf

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