Cultura

Ma sapete quanti shakespeare ci sono al mondo?

A colloquio con Armando Gnisci

di Barbara Fabiani

Armando Gnisci è uno degli studiosi italiani più noti all’estero nell’ambito della letteratura comparata. In Italia, è più che altro un intellettuale scomodo. Poco importa se il suo nome compaia nell’International directory of distinguisghed people dell’American biographical institute, che comprende le biografie di 5mila personalità rilevanti nel mondo, e che in questo prestigioso elenco sia stato incluso non su proposta nostrana, ma di un gruppo di professori universitari cinesi. Dal 1983, anno in cui fonda la cattedra di letteratura comparata all’università La Sapienza di Roma, diventa il punto di riferimento dell’emergente letteratura di migrazione in Italia e avvia un difficile e coraggioso processo di analisi storico letteraria. Ma che cosa dice di tanto indigesto quest’uomo dall’aspetto gentile e con quell’espressione di cautela nello sguardo propria di chi non è abituato al plauso delle folle? Ascoltarlo è come spalancare due finestre in una stanza chiusa, una aperta sul passato e una sul presente, e lasciare che la corrente d’aria l’attraversi. Vita: Nel 1983 la parola interculturalità non esisteva neanche. Eppure da subito è stato chiaro che le sue lezioni di letteratura comparata sarebbero state diverse dal solito. Armando Gnisci: Non ho mai ritenuto che la letteratura comparata fosse una disciplina ancillare dell’italianistica, come in genere viene considerata. Ho sempre sentito il limite di questa visione, e la storia stessa infine ci ha superati. A partire dagli anni 90, dopo la caduta del muro di Berlino, abbiamo scoperto quanta ricchezza e attenzione ci fosse nelle università dell’Europa dell’est nello studiare i rapporti con la letteratura italiana. Vita: Ci faccia qualche esempio… Gnisci: Il teatro croato-dalmata del 1500. È un teatro scritto in alcuni casi in italiano, poiché ci sono stati degli umanisti italiani che sono andati a studiare a Dubrovnik. Non solo: al dipartimento di Letteratura italiana dell’università di Budapest ci sono 40 docenti che oltre a studiare Foscolo e Leopardi, approfondiscono i rapporti tra la letteratura ungherese e quella italiana durante il Rinascimento. E noi riscopriamo le letterature balcaniche dei nostri vicini, come gli albanesi. Vita: In questo percorso ha incontrato molti suoi colleghi della sua stessa opinione? Gnisci: Non moltissimi. Quello che disturba di più del “nuovo approccio” alla letteratura comparata è che ho rovesciato la predominanza della letteratura italiana, intendendola solo come una delle tante letterature nazionali, e trasformando la mia disciplina in una più vasta che studi i rapporti tra tutte le letterature del mondo, non solo occidentali. Vita: Qual è in questo senso la letteratura che più l’affascina? Gnisci: Certamente quella dell’America caraibica che è ricchissima di sollecitazioni verso un nuovo modello di umanità che gli scrittori caraibici chiamano “umanità creola”. Cioè una umanità che si fonda sul meticciato, che non è soltanto la convivenza tra culture ma addirittura l’incrocio. Un fenomeno tipico nei Caraibi, dove sono arrivate quasi tutti gli imperialisti europei. Spagnoli, olandesi, francesi e inglesi si sono mischiati con gli indios sopravvissuti alla conquista e anche con le popolazione dell’Africa occidentale deportate al mercato degli schiavi de la Habana, da dove erano venduti alle piantagioni nel Nord America. I caraibici sono scrittori eccellenti, e l’esempio più notevole è il premio Nobel Derek Walcott, di lingua inglese. Ma amo molto anche Aimé Césaire, il creatore della “negritudine”, e Fratz Fanon. Vita: Come hanno accolto gli studenti questo cambiamento di prospettiva? Gnisci: Dagli studenti mi sono venute le maggiori soddisfazioni, grazie alla loro predisposizione a farsi aprire la mente da questo approccio. Una delle ragioni è che le nuove generazioni hanno inteso il viaggio come facente parte della loro formazione umana, tanto quanto la scuola, la televisione, la religione. La vera delusione è che, crescendo questi stessi giovani sono fatalmente attratti dal mito dominante del denaro, della corsa al successo. Vita: Lei paragona le produzioni letterarie delle diverse culture, ma per fare questo è indispensabile elaborare parametri di confronto. Qual è stata la sua scelta? Gnisci: Di paragoni astratti se ne fanno tanti. L’accademia è fatta soprattutto di erudizione. Dal mio punto di vista, invece, ogni volta che approfondiamo i rapporti tra le letterature dobbiamo pensare che vanno organizzati dentro la storia della civiltà europea nei suoi rapporti con le altre civiltà. Così ho individuato nella storia della colonizzazione l’orizzonte giusto per analizzare il rapporto tra le varie tradizioni letterarie, almeno dal XVI secolo. Vita: Cosa l’ha convinta che questo fosse l’orizzonte appropriato per una comparazione? Gnisci: A partire da Colombo fino a James Cook, gli occidentali europei in due secoli hanno raggiunto tutte le terre conosciute, soggiogandone i popoli. Alcuni hanno resistito, come il Giappone che nel 1600 cacciò via i gesuiti, i mercanti olandesi e portoghesi, decidendo di chiudersi. La maggior parte ha ceduto, rimanendo assoggettata fino a pochi decenni fa. Come pensare che questi “incontri” non si sarebbero riflessi nelle letteratura a venire? Vita: Anche gli italiani sono stati colonizzatori, però. Gnisci: Certo. Da studioso mi sono reso conto della rimozione del nostro passato coloniale, come se esso riguardasse solo le nazioni che hanno avuto veri e propri imperi. Riteniamo che siano loro i soli a dover fare i conti con gli ex colonizzati. Eppure gli italiani sono stati per cent’anni in Africa: dal 1869, quando la compagnia genovese Rubattino comprò la baia eritrea di Assab, fino al 1960, quando è finito il mandato che l’Onu ci aveva dato per portare la Somalia verso la democrazia. Un dettaglio anch’esso rimosso. Dal 1950 al 1960 abbiamo continuato a insegnare ai somali come fare una società democratica. Il risultato è che la Somalia oggi è l’unica nazione al mondo che non ha uno Stato. Vita: Come entra questa lettura storica nella comparazione tra letterature? Gnisci: Dalla fine del 1500 i rapporti tra la civiltà occidentale e le altre sono rapporti di dominanza e di espropriazione. Nello stesso tempo però queste civiltà anche letterarie europee hanno creato nuove civiltà letterarie, quelle dei colonizzati che si esprimono nella lingua dei colonizzatori. L’America latina scrive in spagnolo e portoghese, i grandi scrittori africani scrivono in inglese e in francese. Vita: Paradossalmente la lingua imposta dal colonizzatore diviene lo strumento per esprimere la dominazione. Gnisci: Ed esprime le nuove civiltà nate dal contatto con gli europei. Nel 1980 Salman Rushdie, indiano di lingua inglese, scrisse sul Times un articolo rimasto famoso dal titolo “The Impire rights back”, “l’Impero risponde”. Voleva dire che gli ex colonizzati dalla regina Vittoria, attraverso la letteratura, davano la loro risposta a quanto accaduto. Vita: Questa “risposta” arriva dall’India come pure dall’America latina. Gnisci: Sì, e in maniera particolarmente eloquente. Negli anni 20 Oswaldo de Andreade parlò di una poetica antropofagica. Diceva che i brasiliani avevano nei confronti dell’Europa lo stesso rapporto che gli antropofagi hanno con il corpo del nemico ucciso: ne mangiano parti in cui ritengono risieda la sua forza, ma non si trasformano in lui. Dall’America latina i colonizzati rispondono ai colonizzatori con Octavio Paz, Julio Cortazar, Varga Llosa, Garcia Marquez, Jeorge Borges. Autori i cui libri sono arrivati negli anni 60 in Europa, facendoci conoscere meglio noi stessi. L’America latina dice a spagnoli e portoghesi: «Ci avete conquistati, distrutti, e siamo vostri figli. Ma malgrado tutto siamo una civiltà diversa da voi». Vita: E cosa raccontano i colonizzati dagli italiani agli ex colonizzatori? Gnisci: L’atteggiamento dei nostri ex colonizzati nei nostri confronti non lo conosciamo, perché lo abbiamo cancellato e lo cancelliamo in continuazione. Le opere degli scrittori o cineasti libici, somali, eritrei, etiopici in Italia non arrivano, se non raramente, e soprattutto non interessano a nessuno. Gli italiani ignorano che esista una poesia libica in cui c’è traccia mnemonica del loro passaggio. Vita: Leggendoli potremmo capire qualcosa di noi? Gnisci: Molto più di qualcosa. Ricordo una poesia di un autore libico, Idris Tayed, che ha scritto un libro di liriche in italiano. Una di queste parla del carabiniere. Dice Tayed: «Per voi italiani il carabiniere è il soldato fedele alla bandiera, l’onesto, l’affidabile, e lo stesso affetto lo provate per i bersaglieri. Ma quando si dice carabiniere o bersagliere in Libia, la gente trema perché quel nome che per voi è il martire di porta Pia cui avete fatto un monumento, per noi è il nome del maggior oppressore». E questo gli italiani non lo sapranno mai, se non glielo dice un libico. Ma se a un libico non si dà voce… Abbiamo tradotto invece almeno un grande scrittore somalo, che ha deciso di scrivere inglese. È Nuredine Fara, del quale è stato pubblicato da poco il bellissimo romanzo Doni. Vita: In Eritrea e in Etiopia i locali hanno adottato la nostra lingua? Gnisci: No. C’è una sola scuola italiana ad Addis Abeba dove va a studiare la borghesia locale. Che i nostri ex colonizzati non parlino la nostra lingua non è un fatto strano. In genere si spiega col fatto che siamo stati poco tempo in Eritrea e in Etiopia, dal 1936 al 1944. La verità è che noi non permettevano agli indigeni di frequentare la scuola oltre la quinta elementare. Dovevano essere istruiti quel tanto che serve per capire ed eseguire gli ordini, ma non abbastanza per produrre una letteratura. Mentre inglesi e francesi, nonostante la loro ferocia, hanno creato delle classi dirigenti. Gli indiani, ad esempio, andavano a fare l’università a Oxford; Ghandi era avvocato. Quanti somali sono venuti a studiare da avvocato in Italia durante la colonizzazione? Eppure noi italiani siamo entrati nel mito della costruzione dell’orgoglio nazionale etiope, con la battaglia di Adwa. Vita: Mi faccia ricordare: nel 1896 l’esercito italiano viene sconfitto nella battaglia di Adwa dalle truppe dell’imperatore etiope Menelik. Gnisci: L’unica volta in cui un esercito africano ha rispedito al mittente il suo invasore europeo. Una momento epico della storia africana, un mito che continua ad essere raccontato dai neri della diaspora fin nei Caraibi, e che noi abbiamo voluto rimuovere. Un regista etiope, Haile Gerima, nel 1999 ha presentato fuori concorso al festival di Venezia un film su Adwa. Proiettato in una sala semivuota, non è stato comprato da nessun distributore in Italia. Lo stesso oblio era toccato a Il leone del deserto, una produzione italo-libica diretta nel 1981 da Moustafa Akkad. Una pellicola che racconta la resistenza dei libici all’invasione italiana dal 1911 al 1931. Non solo non lo abbiamo mai visto in sala ma in tanti anni nemmeno in tv, anche perché non è mai stato fatto il doppiaggio in italiano malgrado metà cast fosse di attori italiani. Vita: Oltre che colonizzatori siamo stati anche emigranti; questo ha influito sulla nostra rimozione del colonialismo? Gnisci: Abbiamo rimosso entrambi i fenomeni. Facciamo un passo indietro. L’emigrazione dura cent’anni, dal 1870 al 1970, l’anno in cui avviene il saldo migratorio tra chi emigra e l’arrivo dei primi immigrati in Italia. In questo secolo se ne vanno via da 25 a 30 milioni di italiani, cioè un’altra Italia, completamente dimenticata dalla madrepatria. L’Italia appena unificata, nel 1870 lascia emigrare i diseredati ma nello stesso tempo pensa di diventare una potenza coloniale e comincia a investire soldi per mandare truppe in Libia e in Eritrea. Vita: Ma gli emigranti italiani ci hanno raccontato la loro storia o non abbiamo ascoltato neanche loro? Gnisci: Gli italiani non hanno creato una letteratura di migrazione perchè erano analfabeti, parlavano solo dialetto. Hanno scritto i loro figli e nipoti, come Mario Puzo, Don De Lillo, Guy Tanese. Ma il grande scrittore della migrazione italiana è John Fante, i cui libri sono stati tradotti, ed è stimato dagli americani come uno dei maggiori autori del Novecento. Vita: Oggi da nazione di emigranti siamo diventati terra di immigrazione. Come può una cultura che ha rifiutato il proprio passato affrontare questa prova del presente? Gnisci: Questa è la questione centrale. Gli immigrati vengono in Italia e involontariamente ci ricordano quello che avevamo rimosso: la colonizzazione e l’emigrazione. È un rapporto difficile anche per questo, ma è una seconda occasione per un’autocoscienza che non possiamo farci sfuggire. È questa la chiave di lettura del mio libro di prossima pubblicazione, Letteratura e migrazioni, edito da Meltemi. Vita: Lei nel 1997 ha istituito la banca dati Basili, dedicata agli scrittori immigrati in Italia. Che ci dice di questa nuova letteratura? Gnisci: Che anche in questo caso l’Italia rappresenta un fenomeno tutto particolare. I nostri scrittori immigrati sono encomiabili perché scrivono direttamente in italiano, una lingua che non è mai stata loro. Vita: E questo si percepisce nel loro linguaggio? Gnisci: Sì, e potrebbe essere uno stimolo di creatività linguistica. Purtroppo le casi editrici fanno su questi testi un pesante lavoro di editing, correggendo tutte le “sgrammaticature” in italiano standard. Così gli autori immigrati hanno cominciato loro stessi ad autocensurare il proprio linguaggio e ne risulta un italiano burocratico, quello che immaginano essere il più “corretto”. Invece sarebbe interessante lasciar sperimentare una inedita espressione linguistica. Vita: Si sta costruendo una vera letteratura di migrazione anche in Italia o siamo ancora alla fase dello “sfogo esistenziale”, sociologicamente ma non letterariamente interessante? Gnisci: C’è ancora un grosso peso dell’esigenza autobiografica della propria emigrazione, ma l’opera è tale se supera questa umana esigenza e ci comunica dell’altro. Solo alcuni hanno un vero talento letterario e vanno scoprendo se stessi come scrittori. Vita: Lei chi segnalerebbe? Gnisci: Julio Monteiro Martins, già autore di nove libri prima di emigrare dal Brasile e che oggi insegna lingua e letteratura portoghese all’università di Pisa. Molto belli sono i racconti di Christiana de Caldas Brito, anche lei brasiliana, particolari anche per l’invettiva linguistica che in questo caso è rimasta preservata. E poi il grande poeta albanese Gezzim Hajadari, emigrato da noi da alcuni anni e vincitore del prestigioso premio Montale per la poesia. Ma loro vogliono essere riconosciuti come scrittori e non come “immigrati che scrivono”. Vita: Questa sua ostinazione a “tirar fuori gli scheletri dall’armadio” l’ha fatta sentire isolato? Gnisci: Di fatto in Italia mi sento isolato, ma mi consolo con i riconoscimenti dall’estero. Il mio libro Una storia diversa che descrive la storia letteraria in rapporto alla colonizzazione è stato tradotto in arabo. Ma non si può dire che i miei lavori abbiamo la stessa accoglienza in Italia. Scommettiamo che il mio prossimo libro Poetiche africane passerà poco meno che inosservato, malgrado sia il primo libro sull’Africa scritto in italiano da filosofi, storici e poeti africani? D’altra parte nel libro dico, da italiano, che se fossi vissuto cent’anni fa sarei andato in Africa a combattere nella battaglia di Adwa nelle fila di Menelik. Quindi io sono un traditore della patria, anche se postumo.


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